Energia ed elezioni: intervista a Simona Viola di +Europa

Una forte spinta per sbloccare le rinnovabili e una riforma del Superbonus tra le idee della candidata, avvocata specializzata in rinnovabili, con grande esperienza nelle autorizzazioni. La seconda di una serie di interviste ad alcuni tra i candidati alle Politiche 2022 più attivi sui temi energetici.

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Dopo aver riproposto l’analisi dei programmi elettorali realizzata dal think tank ECCO, prosegue la nostra serie di interviste ai candidati che, dentro o fuori dal Parlamento, si sono mostrati più attivi sui temi dell’energia.

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Alle nostre domande risponde oggi Simona Viola, candidata con +Europa per la coalizione di centro-sinistra nel collegio uninominale del Senato Rimini Forlì-Cesena.

Iscritta al Partito Radicale nel 1978 e da allora fortemente impegnata nelle battaglie per i diritti civili, Viola è tra i fondatori di +Europa. Ma per i temi cari a QualEnergia.it è interessante anche la sua attività professionale: avvocato amministrativista, si occupa prevalentemente di diritto ambientale e dell’energia e specialmente di fonti rinnovabili sin dal 1990.

Oltre ad aver partecipato alle fasi della liberalizzazione del settore, dalla privatizzazione degli asset di Enel, alla costituzione dell’Authority, alla nascita del libero mercato, ha assistito numerosissime imprese del settore elettrico, dalle più importanti multinazionali alle piccole e medie imprese, multiutility e associazioni di categoria affermandosi come esperta del mercato delle rinnovabili, anche e soprattutto delle procedure autorizzative degli impianti.

1. Avvocatessa Viola, quali interventi immediati sosterrebbe per affrontare l’emergenza dei costi dell’energia che sta colpendo il sistema produttivo?

«La premessa è che sappiamo che la politica dei sostegni pubblici, quant’anche necessaria, produce debito “cattivo”, per usare un’espressione di Mario Draghi; il “debito buono” consiste invece nell’investire nelle soluzioni che permettono di uscire, permanentemente dalla ragioni che hanno creato la crisi. I sussidi nell’energia sono particolarmente costosi per il debito pubblico e vanno disegnati con cura.

La crisi impone di trovare strade per sostenere famiglie e imprese; gli aiuti che saranno disponibili per le seconde, soprattutto ora che è chiaro che la crisi non è di breve termine, dipendono anche da quelli che verranno disposti per le prime. Fino ad oggi si è scelto di incentivare il consumo domestico, eliminando gli oneri di sistema e abbassando l’IVA sul gas, con interventi non selettivi che hanno generato costi e ridotto le risorse a disposizione per gestire la crisi di lungo periodo del sistema produttivo. Introducendo dei criteri selettivi per il sostegno al costo dell’elettricità, e così limitando i sostegni unicamente ai consumatori domestici più bisognosi ed entro un limite massimo di consumo, libereremmo disponibilità per le imprese: sostenere i consumatori domestici, senza discriminare fra reddito e consumi, è ingiusto e inefficiente.

Molte delle imprese energivore oggi in crisi dai prezzi del gas hanno una fiscalità limitata per l’energia e non pagano gli oneri di sistema, quindi possono essere sostenuti solo operando sul prezzo dell’energia. Strumenti utili sono certamente anche il credito di imposta, e il price cap, che per primo il Presidente Draghi ha proposto all’Europa e stava positivamente negoziando con i partner europei quando è stato irresponsabilmente sfiduciato da M5S, FI e Lega.

Un’altra possibilità è quella di organizzare aste calmierate, con criteri selettivi all’eccesso, per l’assegnazione alle imprese di produzione di energia Fer ceduta al Gse.

La via maestra resta favorire con tutti i mezzi la diversificazione dal gas e, quindi, l’incremento della produzione fotovoltaica in tutti i siti industriali, accompagnata dall’accesso al credito per chi vuole investire in pannelli, con garanzie pubbliche per esempio di Sace o di Invitalia.

Pmi e commercianti sono infine oggi gravati dagli oneri di sistema che potrebbero essere eliminati quale strumento di sollievo nel breve periodo, avendo in mente una riforma della fiscalità e degli oneri di sistema nel suo complesso».

2. Sul medio termine, quali sono le soluzioni percorribili per ridurre la dipendenza dal gas russo? E delle fonti fossili in generale?

«Due rigassificatori sono già stati acquistati. Si potrebbe segnalare che forse, alla luce degli obiettivi della decarbonizzazione al 2030, siccome non saranno più necessari per il sistema Italia, sarebbe stato meglio noleggiarli, come ha fatto la Germania.

La capacità dei rigassificatori di portare un contributo alla crisi attuale è limitata dai tempi per connetterli alla rete gas nazionale e sembra difficile che si riesca per questa stagione. Per il 2023, anche a causa del rallentato sviluppo delle rinnovabili, saranno i risparmi volontari o indotti dal prezzo eccessivo del gas, a ridurre i consumi a farci superare l’inverno, se la Russia interrompesse le forniture.

Le soluzioni a medio termine sono due, e solo due: Fer ed efficienza energetica. Ogni 10 GW di rinnovabili sostituiscono 2,5 mld mc gas: se riuscissimo ad autorizzare e realizzare i progetti che sono già pronti le Fer potrebbero sostituire, in tutto e per tutto, il gas raggiungendo prima del tempo gli obiettivi già fissati per il 2030.

L’efficienza energetica è cruciale se si considera che l’Italia ha il secondo parco edilizio in Europa per inefficienza, e che i 3% degli edifici della PA deve essere ristrutturato ogni anno: l’efficienza energetica è un obiettivo comunitario ed è l’opzione più sicura per affrancarsi da qualunque gas, non solo russo. È una traiettoria non emergenziale, ma già tratteggiata sia dal Green Deal che dal Repower EU, i cui obiettivi potremmo raggiungere prima del previsto.

Oltre allo sblocco delle Fer occorre mobilitare anche il Pnrr che dedica 40 mld all’industria senza tuttavia menzionare efficienza energetica e obiettivi climatici: sarebbe invece importante che le risorse del Pnrr fossero dirette integralmente al finanziamento delle rinnovabili e al raggiungimento di obiettivi di efficienza nel settore industriale».

3. Tra le forze politiche in competizione, c’è anche chi propone il ritorno al nucleare. Secondo lei è una strada percorribile?

«È una proposta che ciclicamente torna ad animare il dibattito, ma occorre considerare che oggi ci sono le rinnovabili che hanno modificato il quadro tecnologico ed energetico e la tecnologia nucleare non è complementare alle Fer. Con la tecnologia disponibile, se partissimo domani con l’autorizzazione e costruzione di un impianto probabilmente lo vedremmo in esercizio tra 20 anni circa. Sono questi i tempi europei che osserviamo; quindi nel 2040, quando sarà stato ormai raggiunto l’obiettivo di portare le Fer a oltre l’80% dei sistemi elettrici. Insomma, potremmo ritrovarci a produrre energia nucleare con un sistema ormai decarbonizzato, e con una tecnologia già vecchia adesso.

Il nuovo nucleare senza scorie, che deve essere opportunamente studiato e alla cui ricerca anche l’Italia sta fattivamente contribuendo e deve continuare a farlo, sembra avere un orizzonte tecnologico per cui sarà pronto nel 2070.

In definitiva a me pare difficile che il nucleare possa dare un contributo alla crisi presente, e temo che non possa neppure concorrere al percorso verso la decarbonizzaizone e ai target del 2035. È chiaro che chi ce lo ha già, come la Francia, se lo tiene e lo manutiene, ma entrare oggi in un programma nucleare è rischioso e non sembra conveniente.

C’è poi un tema dei costi, neppure completamente stimabili: costi di sicurezza, di gestione delle scorie e del loro, allo stato impossibile, smaltimento. Se ne dovrebbe farsi necessariamente carico la mano pubblica, determinando una importante ripubblicizzazione almeno parziale del settore elettrico, e sottraendoli ad altri capitoli di spesa.

Insomma, mi sembra che occorrano riflessioni meditate prima di fare passi impegnativi. Peraltro occorre uno sguardo globale: l’uscita dalla questione climatica riguarda tutto il mondo e non solo noi e il pericolo, in queste settimane, che incombe a causa dei rischi bellici cui sono esposte le centrali nucleari ucraine dovrebbe farci riflettere e indurre tutti a pronunciarsi con maggiore prudenza. Sembra certamente importante invece investire su tecnologie abilitanti: rete elettrica, connessioni, sistema degli accumuli e ruolo della domanda nei sistemi elettrici.

4. Sulle rinnovabili abbiamo obiettivi sfidanti, un grande interesse del mercato e una situazione che inizia a sbloccarsi. Come giudica l’operato del governo uscente da questo punto di vista? E quali sono oggi i provvedimenti più urgenti da prendere?

«Non sono sfidanti, le imprese non vedono l’ora di sviluppare le rinnovabili. Il Governo Draghi è il primo ad aver introdotto con decisione degli strumenti di autentica semplificazione, peraltro non tutti efficaci. Penso per esempio alla pianificazione delle “aree idonee” che purtroppo temo che si rivelerà controproducente e che concorrerà ad incrementare il ritardo accumulato. Ma quanto è stato già fatto non basta. Le norme vanno approvate ma devono essere poi anche applicate con i comportamenti virtuosi.

Occorrono in particolare un cambio di passo principalmente da parte delle Regioni, cui lo Stato ha delegato il raggiungimento degli obiettivi nazionali, e del Ministero dei beni culturali, che deve apprestare linee guida che indirizzino i pareri della Sovrintendenze sui progetti localizzati in aree vincolate. Alle Regioni devono essere assegnati obiettivi al cui mancato raggiungimento deve conseguire l’esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato.

Occorre aiutare le nostre comunità ad accogliere e apprezzare gli impianti, a guardarli con gli occhi dello sviluppo sostenibile, della riduzione delle emissioni e della ricerca tecnologica, a vederli come un’opportunità e non come detrimento. Per farlo occorre spiegare che per il loro smantellamento, quando non saranno più necessari, occorrono poche settimane di lavori, e che qualsiasi alternativa è più cara, più impattante e comporta dipendenza dall’estero.

Insomma occorre usare parole di verità e abbandonare il linguaggio allarmista, che tanto piace ai populisti nostrani. Un linguaggio intriso di occulti nemici, come le “multinazionali del vento” e che divide semplicisticamente il mondo in buoni e cattivi; occorre che politici, amministratori e funzionari comincino semplicemente a dire le cose come stanno: le rinnovabili se prima della invasione della Ucraina erano necessarie, ora sono indispensabili e urgentissime, e gli impianti, se li guardiamo bene, sono anche belli.

Alle Fer occorrerebbero anche strumenti di finanza, affinché possano essere stipulati PPA con garanzie anche pubbliche. Certo, serve il disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità da quello del gas: una riforma necessaria per raggiungere gli obiettivi, promuovere gli accumuli e attivare i PPA».

5. Superbonus: come giudica questa misura e i risultati ottenuti finora? E quale futuro vede per gli incentivi dedicati all’efficientamento energetico dell’edilizia residenziale?

«L’argomento è stato reso terreno di scontro politico, con semplificazioni e demagogia. Bisogna partire dal dato che abbiamo già detto: l’Italia è il 2° paese col parco edilizio più inefficiente d’Europa e la povertà energetica si genera innanzitutto nel riscaldamento delle case. Il meccanismo di detrazione fiscale con cessione del credito a terzi è certamente efficace per promuovere l’efficienza energetica nelle abitazioni, ma è disegnato male.

Innanzitutto oggi la parte più rilevante degli incentivi è indirizzata alle ristrutturazioni generiche, e non a quelle condizionate alla efficienza energetica, che godono del 50% di per sé di detrazione fiscale, che rappresenta il vero costo dei bonus casa. Ma se si parte da questa base allora occorre incrementare l’incentivazione delle ristrutturazioni che comportano anche recuperi di efficienza energetica, a una soglia superiore al 50%.

L’Ecobonus resta lo strumento principale ma va riformato: non solo va riportato sotto la soglia del 110%, ma deve essere indirizzato verso il raggiungimento di più di due classi di efficienza, puntando quasi alla classe A. E poi bisogna assicurarsi che non si reinvesta di nuovo in gas, sostituendo una caldaia a gas con un’altra, che sarà certo più efficiente, ma non giustifica di essere incentivata; le caldaie vanno sostituite con le rinnovabili o con le pompe di calore, per puntare alla elettrificazione delle abitazioni. Come è possibile che diversi paesi europei abbiano già fissato un termine entro cui elimineranno le caldaie a gas, e noi le incentiviamo?

Inoltre il Superbonus non differenzia per livello di reddito: il 110% ha un costo sociale troppo elevato ed è uno strumento che rischia di essere regressivo trasferendo risorse ai più abbienti. Chi ha più disponibilità deve ottenere più efficienza, installare tecnologie più innovative e godere di minori percentuali di incentivazione.

Un budget andrebbe poi destinato ai più bisognosi, all’edilizia e ai quartieri popolari, perché l’efficienza è il solo sistema per sconfiggere la povertà energetica; peraltro alla fine sono i bilanci dei Comuni a sostenere l’inefficienza energetica dell’edilizia popolare.

Infine, il Superbonus deve durare nel tempo, e non essere confermato finanziaria per finanziaria: occorre un meccanismo efficace di lunga durata e ben tarato, sul quale le persone possano contare e fare il loro programmi, che non determini le spinte inflazionistiche, su materiali e soluzioni, tipiche di quando si devono osservare termini capestro».

6. Per abbattere in modo strutturale i costi energetici delle imprese, quali strumenti metterebbe in campo?

«Credo che la bussola da tenere sia l’allineamento con i principi della decarbonizzazione. Parte della risposta risiede nelle osservazioni già dette: strumenti essenziali saranno i fondi del Pnrr e la finanza pubblica.

C’è una richiesta di innovazione, dettata dalla decarbonizzazione, che necessita di finanziamenti; le nostre imprese non devono solo sopravvivere a questi prezzi del gas, ma devono poter uscire dalla crisi con un prodotto, con processi e con la capacità di restare attraenti nel mercato del futuro, in ogni settore. Le Fer, anche decentrate, l’idrogeno verde, l’efficienza energetica sono le aree cui le imprese si indirizzeranno per uscire dalla crisi.

Vorrei porre una particolare attenzione al bacino del Mediterraneo e alla rete energetica del futuro: la rete non dovrebbe essere solo rete di gasdotti, che potrebbe non servire al trasporto dell’idrogeno, ma servono reti per la circolazione dell’energia elettrica e dell’idrogeno e realizzare eolico off-shore.

Non possiamo più essere un sistema energetico chiuso ma decarbonizzazione e green deal ci chiedono di immaginare un nuovo sistema energetico cui approdare. Anche per questo la miope politica autarchica del “piccolo è bello” della destra sovranista e nazionalista è del tutto inadeguata alle sfide che ci aspettano, che solo una maggiore integrazione coi nostri partner europei può aiutarci a vincere».


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