Come recuperare 900 miliardi di finanziamenti per il clima tassando le major del fossile

Oltre 100 associazioni ambientaliste di tutto il mondo propongono un'imposta aggiuntiva nei Paesi Ocse per sostenere il Fondo Loss&Damage destinato agli Stati più vulnerabili.

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Il finanziamento di programmi di risarcimento climatico è una delle principali sfide che i Paesi più industrializzati stanno affrontando per riparare ai danni fatti in decenni di sfruttamento massivo delle risorse e scarsa cura delle conseguenze.

La COP28 di Dubai ha visto l’istituzione del Fondo Loss&Damage a vantaggio dei Paesi più poveri che subiscono in misura maggiore gli effetti del cambiamento climatico e si trovano impreparati ad affrontarlo pur avendo contribuito in minima parte a causarlo.

Il recente G7 Ambiente di Torino ha sancito la necessità degli Stati membri di sbloccare finanziamenti per il clima nell’ordine di “migliaia di miliardi di dollari”, andando ben oltre la cifra di 100 miliardi inizialmente indicata dopo la COP26 di Glasgow del 2021.

Ma dove trovare questa somma? Secondo un report ,“The Climate Damages Tax” (link in basso), curato da oltre 100 organizzazioni climatiche in tutto il mondo, tra cui Greenpeace, Stamp Out Poverty, Power Shift Africa e Christian Aid, un’imposta aggiuntiva sulle major dei combustibili fossili nei Paesi Ocse porterebbe a raccogliere 720 miliardi di dollari da destinare ai Paesi meno sviluppati già entro la fine di questo decennio.

Le associazioni propongono di applicare la tassa su ogni tonnellata di carbone, barile di petrolio o metro cubo di gas prodotto, a una quota base di 5 dollari per tonnellata di CO2 “incorporata” (vale a dire la CO2 derivata dalla produzione sommata a quella che verrebbe emessa con il consumo), da aumentare annualmente di 5 dollari per tonnellata.

In questo modo, secondo i calcoli, si otterrebbe un “tesoretto” da 900 miliardi di dollari entro il 2030. La proposta sarebbe poi quella di destinarne 720 miliardi al Fondo Loss&Damage e 180 miliardi come “dividendi interni” per sostenere le comunità svantaggiate all’interno degli stessi Stati Ocse.

Tarando questa somma soltanto sui Paesi del G7, che hanno deliberato appena lo scorso 30 aprile per “l’eliminazione graduale della produzione di energia elettrica da carbone nei sistemi energetici” (ma solo negli impianti “unabated”, cioè privi di sistemi di abbattimento delle emissioni, come la cattura del carbonio), la tassa consentirebbe di raccogliere 540 miliardi di dollari per i Paesi meno sviluppati e 135 miliardi di dividendi interni.

David Hillman, direttore delle campagne di Stamp Out Poverty e coautore del rapporto, ha affermato che tutto ciò “dimostra che i Paesi economicamente più potenti, che hanno una maggiore responsabilità storica per il cambiamento climatico, non hanno bisogno di guardare oltre le loro industrie di combustibili fossili per raccogliere decine di miliardi all’anno tassandole in modo molto più rigoroso”.

I profitti delle Carbon Majors

Una parte significativa delle emissioni globali può essere attribuita a un numero relativamente piccolo di produttori di combustibili fossili.

Dal 2016 in poi l’80% dei gas serra sprigionati è attribuibile a soli 57 enti produttori tra aziende e Stati, secondo il database “Carbon Majors” del think tank climatico Influence Map.

Le società di proprietà di investitori privati rappresentano il 31% di tutte le emissioni tracciate dal database (440 GtCO2e su 1.421 di emissioni storiche cumulative dal 1854 al 2022), con Chevron, ExxonMobil e BP rispettivamente primo, secondo e terzo maggior contributore.

I profitti delle compagnie petrolifere e del gas sono inoltre aumentati negli ultimi tempi, soprattutto a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, raggiungendo la cifra senza precedenti di 4.000 miliardi di dollari nel 2022, secondo il report “World Energy Investment 2023” della Iea.

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“Con le spalle così larghe, questa industria può chiaramente permettersi di pagare una tassa molto più elevata”, sostengono le associazioni nel report. Gli autori affermano inoltre che l’imposta potrebbe essere “facilmente incorporata” nell’ambito dei sistemi fiscali esistenti.

Il meccanismo di riscossione sarebbe simile a quello di due esempi citati: l’International Oil Pollution Compensation Fund, che fornisce un risarcimento per danni da inquinamento da idrocarburi causato da sversamenti di navi cisterna, pagato principalmente con i contributi di enti coinvolti nel trasporto marittimo direttamente al Fondo, senza passare per le casse nazionali, e la Airline Solidarity Levy, la tassa sui biglietti aerei introdotta per la prima volta dalla Francia nel 2006 per raccogliere fondi per l’acquisto e la diffusione di farmaci per l’HIV, la tubercolosi e la malaria.

L’entità del “danno” economico

Per avere un’idea di quanto pesi il danno atteso in termini economici causato dal cambiamento climatico gli analisti fanno riferimento nel report alle stime del colosso assicurativo britannico Aon – contenute nel “Weather, Climate and Catastrophe Insight” del 2023 – secondo il quale le catastrofi naturali hanno causato perdite economiche globali pari a 313 miliardi di dollari nel 2022, con una forbice al 2030 tra i 290 e i 580 miliardi.

Un rapporto di Christian Aid del novembre 2021 (pdf) ha inoltre rilevato che, con le attuali politiche climatiche, i Paesi meno sviluppati, i piccoli Stati insulari e le nazioni che fanno parte del Climate Vulnerable Forum rischiano una riduzione media del proprio Pil del 19,6% entro il 2050 e del 63,9% entro il 2100.

Tenendo conto dei dati storici e di queste analisi, il report “The Climate Damages Tax” stima che saranno necessari finanziamenti tra i 300 e i 450 miliardi di dollari all’anno nell’ambito del Fondo Loss&Damage.

Data l’entità delle somme di cui si parla, le associazioni invitano a considerare la nuova tassa come un singolo strumento all’interno di un più ampio paniere di misure complementari, come l’aumento delle imposte sui profitti, nonché prelievi sul trasporto marittimo, sull’aviazione e sulle transazioni finanziarie.

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