Ora la protezione del clima è un diritto umano

Storica sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha accolto in parte il ricorso di alcune anziane donne svizzere contro lo Stato federale, accusato di non aver agito a sufficienza per mitigare gli effetti del surriscaldamento globale.

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La Svizzera ha violato l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani, che riguarda il diritto al rispetto della vita privata e familiare, perché non ha agito in modo sufficiente per mitigare gli effetti del cambiamento climatico.

Questo il punto centrale della sentenza di ieri, 9 aprile, con cui la Corte europea dei diritti umani (ECHR) ha accolto in parte il ricorso di quattro donne e dell’associazione svizzera Verein KlimaSeniorinnen (Anziane per il clima Svizzera). I suoi membri sono tutte donne anziane, perlopiù ultra settantenni, preoccupate per le conseguenze del surriscaldamento globale sulle loro condizioni di vita e di salute, in particolare per le ondate di calore sempre più frequenti e intense.

È una sentenza “storica” come hanno commentato diverse associazioni ambientaliste, perché, per la prima volta, la Corte ha collegato la tutela dei diritti umani agli obblighi di protezione contro i cambiamenti climatici.

Secondo i giudici, infatti, che hanno votato a larghissima maggioranza (16 favorevoli e un solo contrario), “l’articolo 8 della Convenzione sancisce il diritto a una protezione effettiva da parte delle autorità statali contro i gravi effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita, sulla salute, sul benessere e qualità della vita”, si legge nella nota pubblicata dalla stessa Corte dopo aver pronunciato la sentenza.

In questo contesto, si osserva, “il dovere principale di uno Stato contraente è quello di adottare e applicare concretamente regolamenti e misure in grado di mitigare gli effetti futuri, esistenti e potenzialmente irreversibili, dei cambiamenti climatici”.

Tale obbligo “deriva dalla relazione causale tra il cambiamento climatico e il godimento dei diritti della Convenzione, e dal fatto che l’oggetto e lo scopo della Convenzione, in quanto strumento per la protezione dei diritti umani, richiedono che le sue disposizioni siano interpretate e applicate in modo tale da garantire diritti concreti ed effettivi”.

La Corte ha quindi ritenuto “che la Confederazione Svizzera non avesse adempiuto ai suoi doveri (“obblighi positivi”) ai sensi della Convenzione per quanto concerne il cambiamento climatico”.

Ci sono state “lacune critiche” nell’attuazione del relativo quadro normativo nazionale, “inclusa l’incapacità da parte delle autorità svizzere di quantificare, attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo, le limitazioni nazionali alle emissioni di gas serra”.

Pertanto, “pur riconoscendo che le autorità nazionali godono di un ampio potere discrezionale in relazione all’attuazione delle leggi e delle misure, la Corte ha ritenuto, sulla base degli elementi a sua disposizione, che le autorità svizzere non avevano agito in tempo e in modo adeguato per ideare, sviluppare e attuare legislazione e misure pertinenti in questo caso”.

Le associazioni ambientaliste evidenziano, come detto, la portata storica della sentenza e la possibilità che possa costituire un precedente per altre cause climatiche contro governi e aziende dei combustibili fossili.

“È la prima volta che un tribunale transnazionale specializzato in diritti umani sostiene esplicitamente il diritto alla protezione del clima, mettendo in relazione la difesa del clima e i diritti umani, e condanna l’inazione dei governi”, ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente.

La decisione della Corte, ha spiegato Cordelia Bähr, a capo del team legale delle Anziane per il clima in una nota diffusa da Greenpeace, “sarà di grande importanza per ulteriori cause sul clima contro Stati e aziende in tutto il mondo e aumenterà le loro possibilità di successo”.

Per Greenpeace quindi la sentenza “segna un importante precedente per le controversie sul clima a livello globale” e ora tutti i 46 Stati del Consiglio d’Europa (organizzazione con sede a Strasburgo che promuove la democrazia e i diritti umani) “potrebbero essere invitati dai loro cittadini a rivedere e, se necessario, rafforzare la loro politica climatica sulla base dei principi sviluppati dalla Corte per salvaguardare i diritti umani”.

Sempre ieri, 9 aprile, la Corte ha dichiarato invece inammissibili altri due ricorsi sul clima: quello intentato da un gruppo di giovani portoghesi nei confronti di 32 Stati membri dell’Unione europea (caso “Duarte Agostinho and Others v. Portugal and 32 Other States”) e quello presentato dall’ex sindaco di Grande-Synthe contro lo Stato francese (caso “Carême v. France”).

Intanto in Italia, ricordiamo, si attende l’esito della causa climatica (la “Giusta causa”) presentata al Tribunale di Roma a maggio 2023 contro Eni, da Greenpeace insieme a ReCommon e 12 cittadini e cittadine, per obbligare la compagnia a ridurre le sue emissioni di CO2 in linea con l’Accordo di Parigi. La prima udienza si è tenuta lo scorso febbraio.

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