Stop auto a combustione dal 2035. Ecco perché non è il caso di riscaldarsi troppo

Un verifica fattuale-emotiva dei timori e delle critiche suscitati dalla decisione europea di immettere sul mercato del nuovo solo auto elettriche fra 12 anni.

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Nessuno ha mai detto che la transizione energetica sarebbe stata facile. Non saranno rose e fiori. Sarà un’ultra-maratona, con alti e bassi, momenti di euforia e momenti di lacrime e sangue.

I timori e le critiche di chi condanna la decisione dell’Unione europea di vietare la vendita di nuove auto endotermiche e consentire l’immissione sul mercato solamente di auto elettriche dal 2035 sono umanamente comprensibili.

L’empatia sarà uno degli strumenti più importanti della transizione energetica. Così come la condivisione e l’alleggerimento dei sacrifici economici che imprese e famiglie più vulnerabili dovranno affrontare. È risaputo però che il medico pietoso rende la piaga ancora più purulenta di quanto non sia già.

Si sente dire che il passaggio alle auto elettriche non dovrebbe essere un obbligo da imporre fra soli 12 anni, ma una libera scelta da attuare nell’arco di decenni, un po’ come successe nella transizione fra le carrozze a cavalli e l’automobile.

L’Unione Europea ha posto un limite temporale e un divieto sulla vendita di nuove auto endotermiche, neanche così ravvicinato, perché la crisi del clima non ci concede massima libertà di scelta. E comunque, se uno ha già un’auto a benzina o diesel, potrà continuare a usarla anche dopo il 2035. Abbiamo però già perso decenni a cincischiare, storditi dalla disinformazione di molti produttori di idrocarburi.

Transigere, ora, non si può. Non abbiamo scelta, sui tempi, perché siamo già in ritardo di almeno dieci anni, né sui modi, perché il processo principale di decarbonizzazione che abbiamo consiste nell’elettrificazione di quanti più usi finali possibili.

Detto questo con spirito empatico, tiriamo tutti un sospiro di sollievo, perché molti timori adombrati da qualcuno sono per lo più infondati, e là dove hanno un fondamento saranno presumibilmente gestibili o, nella peggiore delle ipotesi, non presenteranno controindicazioni peggiori di quelle certe che già soffriamo.

Cerchiamo di fare un rapido elenco dei timori e delle critiche, evidenziati in grassetto e corsivo, e di lenirli per quanto possibile.

Generazione e rete elettrica

“Elettrificare il parco auto comporterà un’impennata dei consumi elettrici. Avremo problemi a produrre così tanta energia e se anche ci riuscissimo la rete elettrica non sarebbe capace di gestirla e trasportarla.”

Quanto alla generazione, ci sarebbe sulla rampa di lancio una quantità più che sufficiente di nuova capacità rinnovabile per soddisfare qualunque domanda. Il problema da superare è burocratico e consiste nel velocizzare le autorizzazioni, sempre nel rispetto delle norme paesaggistiche, che i produttori sono ormai i primi a voler onorare, perché hanno imparato la lezione degli ultimi 15-20 anni.

Quanto alla capacità della rete, bastino le parole dette due settimane fa da Francesco Starace, amministratore delegato di Enel: “l’Italia ha la prima e migliore rete digitale del mondo. È possibile gestire e far convivere milioni di auto elettriche con milioni di pompe di calore elettriche se si ha una rete digitalizzata, a patto di prevedere stoccaggi non solo centralizzati ma anche diffusi. Nei prossimi 5 anni, vedremo ovunque stoccaggi e batterie come qualcosa di normale, nelle case, negli uffici e nelle fabbriche, e sta già succedendo. Spesso ci lamentiamo dei ritardi che affrontiamo, ma non sempre siamo consci di quanto l’Italia sia avanti in alcune cose”.

Un altro fattore troppo spesso ignorato è che la combustione interna e i combustibili fossili saranno pure molto efficaci per il lavoro che svolgono, ma sono anche molto poco efficienti, energeticamente parlando.

I veicoli endotermici sono estremamente spreconi, perché convertono appena il 20-30% dell’energia chimica immagazzinata nel carburante in energia cinetica alle ruote. Il resto dell’energia è dissipato sotto forma di calore. I veicoli a batterie, invece, trasformano oltre il 77% dell’energia elettrica in energia alle ruote.

Ciò vuol dire che basterà rimpiazzare anche solo la metà del consumo di energia primaria attualmente sotto forma di benzina o diesel per ottenere con l’elettricità pulita il 100% di quello che danno i combustibili fossili, cioè per ottenere la stessa quantità attuale di “lavoro” dalle nostre macchine.

Costi delle auto elettriche

“Le auto elettriche hanno prezzi di vendita più alti delle auto a benzina o diesel. Questo comporterà difficoltà per le famiglie con redditi più bassi.”

“I veicoli elettrici potrebbero eguagliare i prezzi delle auto a benzina già quest’anno”, titolava il New York Times pochi giorni fa, nel giorno di San Valentino.

“L’aumento della concorrenza, gli incentivi governativi e il calo dei prezzi del litio e di altri materiali per le batterie stanno rendendo i veicoli elettrici molto più accessibili. Il punto di svolta, quando i veicoli elettrici diventeranno economici come o più delle auto con motore a combustione interna, potrebbe arrivare quest’anno per alcuni modelli del mercato di massa e lo è già per alcuni veicoli di lusso”, spiegava l’articolo.

La realtà sul campo potrà variare in base alle diverse condizioni normative e di mercato nazionali, ma le case automobilistiche sono le stesse. La tendenza è chiara, i prezzi delle auto elettriche stanno calando sensibilmente e il punto di pareggio con quelli delle auto tradizionali è molto più vicino di quanto si pensi.

Colonnine, tempi di ricarica, autonomia

“La ricarica delle auto elettriche richiede un’infrastruttura di colonnine per l’alimentazione che ancora non c’è. E i tempi per la ricarica possono essere anche molto più lunghi di quelli di un pieno. Inoltre, le auto elettriche hanno un’autonomia reale più limitata delle auto tradizionali.”

Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti. Quella delle infrastrutture è una questione fondamentale, che si è cominciato ad affrontare ma che al momento è ancora da risolvere, anche perché fino a ieri non c’è stato bisogno di affrontarla, vista l’esiguità, soprattutto in Italia, delle auto elettriche.

Alla fine dell’anno scorso, secondo Motus E, c’erano in Italia meno di 37mila colonnine di tutti i tipi, da quelle più lente nella ricarica a quelle più veloci. Poche rispetto alle oltre 115mila della numero uno europea, l’Olanda, alle quasi 89mila della Germania, alle oltre 74mila della Francia e alle 55mila del Regno Unito.

La prospettiva migliora però se si contano le colonnine in rapporto ai veicoli elettrici circolanti in ciascun Paese. In questa classifica, l’Italia sale al terzo posto, con 21,5 colonnine ogni 100 veicoli elettrici – grazie anche ai pochi veicoli elettrici in circolazione qui da noi.

Non c’è dubbio che la diffusione delle infrastrutture di ricarica debba accelerare nel prossimo decennio per consentire agli automobilisti di ricaricare senza problemi il crescente numero di auto elettriche. Notate le ombre che l’alba della mobilità elettrica ancora proietta sulla realtà attuale, vediamo anche qualche luce che già si staglia all’orizzonte.

Secondo Transport & Environment, l’andamento attuale delle installazioni di colonnine di ricarica nella Ue è coerente con le linee guida della Commissione europea, che prevedono una stazione di ricarica ogni 10 veicoli. In Italia, a fine 2022, c’erano quasi 5 colonnine ogni 10 auto, quindi molte di più di quelle ritenute necessarie in base al numero di veicoli elettrici. I volumi attuali di colonnine sono quindi adeguati per dare il via al mercato.

L’ottobre scorso, il Parlamento europeo ha approvato e proposto agli Stati membri l’obiettivo di offrire agli automobilisti la possibilità di ricaricare pubblicamente in ogni angolo dell’Unione entro il 2025.

Il piano prevede l’obbligo di installare centri di ricarica ogni 60 km lungo le strade principali e nelle città. La ricarica veloce rappresenta una quota crescente della ricarica pubblica e consente agli automobilisti di ricaricare l’equivalente di 400 km di guida in 15 minuti.

Entro il 2026, inoltre, saranno operative in Italia oltre 21mila nuove stazioni di ricarica per veicoli elettrici sulle strade urbane e interurbane, secondo i nuovi decreti pubblicati a gennaio 2023 dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) e finanziati con le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr).

In particolare, il Pnrr stanzia oltre 700 milioni di euro per l’installazione di almeno 7.500 stazioni di ricarica superveloce, con una potenza di circa 175 kW ciascuna sulle strade interurbane diverse dalle autostrade, e di 13.755 stazioni di ricarica veloce, con una potenza di 90 kW nelle città (vedere: Auto elettrica, il mercato frena mentre corrono le installazioni di punti di ricarica)

La sempre maggiore frequenza delle stazioni di ricarica servirà a gestire con più tranquillità la questione della minore autonomia reale, che può per esempio variare con il freddo, delle auto elettriche rispetto a quelle a combustione (vedere: Quanti chilometri fanno davvero le auto elettriche? e Auto elettriche, l’evoluzione tecnica rende le batterie meno suscettibili al freddo e al caldo)

Finché l’intero sistema della mobilità elettrica non si sarà pienamente evoluto, dovremo adattare almeno un po’ le nostre abitudini, attendendo un po’ di più per fare il pieno di elettricità o facendo rifornimento un po’ più spesso. Sono sacrifici davvero così insopportabili?

Perdita di produzione e servizi nella filiera tradizionale

“La scomparsa dei motori a scoppio, dei loro componenti e dei servizi legati alla filiera auto tradizionale comporteranno la chiusura o la contrazione di molte aziende e la perdita di molti posti di lavoro.”

Ribadito quanto detto all’inizio sulla necessità di empatia e condivisione dei sacrifici in una lunga fase di transizione, facendo un parallelo col passato, sarebbe scellerato da parte dei decisori politici, delle aziende e dei cittadini fare la guerra ai computer perché noi qui in Italia dobbiamo difendere il settore delle macchine da scrivere, che coinvolge tante aziende e dà lavoro a tante persone.

Già scontiamo i ritardi e la miopia della maggiore azienda automobilistica del Paese, che notoriamente negli anni passati non “credeva” nell’auto elettrica e puntava convintamente sul diesel, mentre altri suoi concorrenti si attrezzavano con più anticipo per affrontare la svolta in corso. Sarebbe il caso di non perseverare negli stessi errori.

Questo percorso non va fermato, ma assecondato, se non si vuole rischiare veramente uno shock della produzione e dell’occupazione. E in realtà, la stessa Stellantis lo ha capito e ha in programma di produrre e vendere solo modelli elettrici in Europa dal 2030. La Fiat, quindi, è ormai già più avanti rispetto agli stessi obblighi di legge che alcuni politici e cittadini italiani ancora avversano.

Anche gli altri principali costruttori europei si sono espressi a favore della transizione all’elettrico. E già prima della decisione della Ue hanno stilato obiettivi e piani industriali per l’elettrificazione completa dei veicoli nuovi molto in anticipo rispetto al 2035.

Stante quindi il limite del 2035, ciò di cui bisognerebbe discutere è come l’Europa debba intervenire entro i prossimi 12 mesi per sostenere l’industria automobilistica continentale e i cittadini più colpiti dalla transizione nei prossimi 12 anni.

Da una parte è bene distorcere il meno possibile gli equilibri commerciali dell’Europa con il resto del mondo. Dall’altra, però, l’Ue non può stare semplicemente a guardare mentre Cina e Stati Uniti sostengono i loro settori verdi, creano campioni nazionali della mobilità elettrica e ricostruiscono o rafforzano la propria capacità industriale.

Parliamo cioè del “come” accompagnare la transizione nei tempi prestabiliti, che sono già in ritardo e comunque ancora piuttosto lunghi, e non del “se” o “quando” attuare la transizione. È una sfida che si vince solo in Europa come Europa, non facendo barricate, ma neanche lottando con una mano sola. Il Cbam, il meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera sulla rampa di lancio da parte dell’Ue, va in questa direzione (vedere: Auto elettrica, perché sbaglia chi dice che è un regalo alla Cina).

Dovrebbe essere chiaro che un cambiamento di paradigma epocale come questo ponga sfide organizzative e necessiti di lungimiranza strategica per formare la forza lavoro, nonché politiche di transizione giuste per le persone e le aziende colpiti negativamente.

Ma quella della mobilità elettrica rappresenta un’opportunità enorme. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, la transizione energetica creerà 14 milioni di nuovi posti di lavoro e richiederà il trasferimento di circa 5 milioni di lavoratori dai settori dei combustibili fossili. Oltre a questi nuovi ruoli, 16 milioni di lavoratori dovranno passare a lavorare nei segmenti dell’energia pulita, richiedendo competenze e formazione aggiuntive.

Se non accettiamo di impostare questa sfida nei tempi comunque non cortissimi che ci siamo dati e resistiamo al cambiamento, abbiamo perso in partenza e invece di essere noi a gestire il nostro cambiamento sarà il cambiamento degli altri a gestire noi.

Danni climatici

“La maggiore sostenibilità climatica della mobilità elettrica è dubbia.”

Così come prima abbiamo sgombrato il campo da possibili fraintendimenti sulla questione delle infrastrutture, riconoscendo che è ancora da risolvere, adesso dobbiamo sgombrarlo in senso inverso da qualunque possibile dubbio: la mobilità elettrica ha sicuramente e comprovatamente un impatto climatico non nullo, perché questo è impossibile, ma di gran lunga inferiore a quello delle attività basate sui combustibili fossili.

Se si è ancora in dubbio è in parte per difficoltà di accesso e comprensione di dati e studi scientifici, effettivamente complicati, e in gran parte per disinformazione giornalistica, pigrizia mentale, malafede o cose del genere. Esistono infatti ormai da molti anni decine di studi comparativi sull’impatto climatico dei veicoli elettrici rispetto a quelli a combustione durante l’intero ciclo di vita di entrambi i tipi di veicoli.

Pur con tutti i distinguo metodologici legati alla molteplicità di variabili, assunti e tipi di misurazione che si possono adottare i risultati sono univoci: nell’intera vita di un auto, la versione endotermica ha impatti climatici da un terzo a una volta circa maggiori, quindi anche doppi, rispetto alle versioni elettriche. Almeno su questo, mettiamoci l’anima in pace.

Danni ambientali

“Le auto elettriche fanno più male all’ambiente di quelle tradizionali perché richiedono l’estrazione di molti più minerali, anche rari.”

Tutte le soluzioni, di qualunque tipo e in qualsiasi campo, anche le più virtuose, presentano costi e benefici e tutte hanno dei limiti. Anche la transizione energetica non è un pasto gratis, come impatto ambientale, e ci presenterà sicuramente il suo conto. Detto questo, rispetto ai combustibili fossili, il consumo di materiali e risorse dei veicoli elettrici e della generazione rinnovabile è nel suo complesso molto inferiore a quello della filiera fossile.

Spesso si confrontano le quantità di materiali utilizzate per costruire una batteria, un’auto, un modulo fotovoltaico o una turbina eolica con quelle, ritenute inferiori, necessarie ad un’auto a benzina o una centrale a gas o a carbone. Ma spesso ci si dimentica che la prima categoria di prodotti smette praticamente di consumare risorse una volta costruita, mentre la seconda categoria continua a consumarne in quantità molto ingenti anche dopo essere stata costruita, per tutta la sua vita.

Una centrale a carbone brucia un camion di carbone ogni cinque minuti circa. Sono 100mila camion all’anno, per una sola centrale. Nel 2019, pre-pandemia, le attività minerarie e di estrazione legate alle fonti fossili hanno prelevato dalla Terra 15 miliardi di tonnellate fra carbone, greggio e gas, rispetto ai 7 milioni di tonnellate per l’energia e la mobilità a basso contenuto di carbonio e i 28 milioni di tonnellate stimati per il 2040, secondo la Iea, BP e il dipartimento dell’Energia statunitense. Si tratta di estrazioni, rispettivamente, di oltre 2mila e oltre 500 volte inferiori che sono necessarie per il settore verde.

Poiché il danno ambientale è abbastanza direttamente proporzionale alle quantità di materiali estratti dalla Terra o dal mare, non ci vuole molto a farsi due calcoli su quali attività siano più ambientalmente dannose.

È vero che, rispetto ai metalli “tradizionali” come il carbone o il ferro, i metalli critici per la decarbonizzazione tendono ad essere più diluiti nella crosta terrestre. Per esempio, bisogna estrarre mediamente 250 tonnellate di roccia per ricavare una tonnellata di nickel puro, 510 tonnellate per avere una tonnellata di rame puro, 850 tonnellate di terreno per avere una tonnellata di cobalto puro e 1.600 tonnellate di materiale per ricavare una tonnellata di litio. Per estrarre una tonnellata di minerale di ferro puro, basta estrarre mediamente 9 tonnellate di roccia.

L’attività mineraria, per sua natura, avrà sempre un impatto sull’ambiente, così come l’anno avuto e continuano ad averlo l’estrazione e lavorazione dei combustibili fossili.

Si ritorna comunque sempre al calcolo costi-benefici complessivo e al fatto che, schematizzando, una singola estrazione di minerali per una singola batteria al litio o turbina eolica durerà per tutta la vita utile di tali prodotti, cioè 10 o 20 anni, mentre le risorse fossili estratte per un auto endotermica o una centrale a gas dovranno continuare ad essere estratti ogni singola giorno, settimana o mese della vita di tali apparati.

Nel calcolo a favore della filiera pulita, inoltre, va considerato il vantaggio che, sempre più col passare degli anni, i materiali saranno riciclati. E il discorso che si faceva prima sulla necessità che l’Europa si doti di una politica industriale propria, più unitaria, più incisiva, più autonoma dall’estero dovrà valere per quanti più comparti possibile: dal polisilicio alle celle solari, dalla capacità di processare il litio a quella per le terre rare, dalle giga-factory di batterie a quelle di moduli fotovoltaici.

È prioritario che l’estrazione di qualunque risorsa sia condotta minimizzando i danni ed evitando di perpetuare l’ingiustizia ambientale attraverso regolamentazioni più efficaci e pratiche aziendali più responsabili. Deve essere però chiaro che, passando alle energie rinnovabili e alle auto elettriche, si consumeranno in assoluto molte meno risorse, anche per la questione menzionata prima della molto maggiore efficienza energetica dell’elettrico rispetto alla combustione interna. Una tonnellata di litio “va più lontano” in termini di capacità energetica di una tonnellata di petrolio, per cui ne basterà di meno a parità di lavoro svolto rispetto al petrolio.

Conclusioni

Le fonti fossili sono antiche – letteralmente – e perciò anche molto preziose. Il loro uso va limitato a piccole nicchie che ancora hanno difficoltà a trovare alternative verdi. Il settore della mobilità stradale non è uno di questi.

Con le capacità che abbiamo oggi, bruciare petrolio per far muovere le nostre auto è come bruciare mazzette da 100 euro per riscaldare casa. È completamente insensato.

Se lo facciamo è solo per la forza d’inerzia del passato, perché cambiare un intero sistema energetico è complicato – e anche perché il sistema fossile sembra più efficace di quanto non sia solo grazie a migliaia di miliardi di dollari di sussidi che ha ricevuto nei decenni e che continua a ricevere anche oggi – in misura maggiore delle rinnovabili.

Rimane, quindi, il fatto che bruciare oggi benzina o diesel per muovere le ruote delle nostre auto sia energeticamente, economicamente, ambientalmente e climaticamente insensato. Così come sarebbe stato insensato combattere i computer per difendere le macchine da scrivere.

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