In Europa ci sono stati due scossoni contro i veicoli diesel e benzina: il primo è che dal 2035 si potranno vendere solo nuove automobili e nuovi furgoni a zero emissioni di CO2, grazie al voto definitivo del Parlamento Ue in plenaria.
Il secondo scossone è la proposta di regolamento della Commissione Ue (ora in consultazione fino al 14 aprile) per tagliare le emissioni dei camion.
Le reazioni del governo italiano sono state molto critiche, per usare un eufemismo.
La ciliegina sulla torta dei “no” alle nuove norme europee è arrivata dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, che in Senato ha parlato di “integralismo ideologico del solo elettrico” e di “un suicidio nonché un regalo alla Cina“.
Mentre i suoi colleghi, tra cui Gilberto Pichetto Fratin (Ambiente e sicurezza energetica) e Adolfo Urso (Industria e Made in Italy), hanno ribadito la ricetta che fu già del Governo Draghi: puntare tutto sulla mobilità elettrica è un errore, serve più gradualità, occorre garantire il principio della neutralità tecnologica dando spazio anche a biocarburanti, idrogeno, combustibili sintetici a basse emissioni di CO2 (e-fuel).
Ma la mobilità elettrica, di per sé, non è un regalo alla Cina. Lo diventerà se le imprese italiane ed europee ritarderanno progetti e investimenti nelle nuove filiere tecnologiche, arroccandosi sullo status quo; se non vedranno nella transizione verso le auto elettriche una opportunità da cogliere.
Intanto, le case automobilistiche hanno affermato che sarebbe molto complicato rispettare i nuovi obblighi imposti dalla Ue, con particolare riferimento alla riduzione delle emissioni dei mezzi pesanti.
Per Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica) “è molto difficile, se non impossibile, sviluppare in così pochi anni – appena 7 in riferimento all’obiettivo del 2030 – soluzioni tecnologiche in grado di dimezzare le emissioni di CO2 degli autocarri“.
I costruttori quindi chiedono traguardi meno stringenti e porte aperte a tutte le tecnologie.
Su un punto hanno ragione: non basta definire obiettivi per il 100% elettrico, ma bisogna anche sviluppare tutto il necessario “contorno”, cioè le le condizioni abilitanti per la mobilità elettrica. Quindi: infrastrutture di ricarica, incentivi all’acquisto, maggiore produzione di energia da fonti rinnovabili.
In Italia, evidenzia un recente rapporto di Motus-E, associazione che promuove i trasporti elettrici, la rete delle colonnine per i veicoli plug-in sta crescendo rapidamente, anche se restano dei ritardi soprattutto sulle autostrade e per le colonnine ad alta potenza.
Nel 2022 si sono installati oltre 10mila nuovi punti di ricarica a uso pubblico nel nostro Paese, tanto che ora abbiamo più punti di ricarica, in rapporto ai veicoli a batteria circolanti, rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna.
Il problema è che il mercato delle auto elettriche sta andando a rilento. Nel 2022 le vendite sono scese a poco più di 49mila contro le 67mila del 2021, in calo del 27% con una quota di mercato complessiva del 3,7% (4,6% nel 2021).
E gennaio 2023 conferma la tendenza al ribasso: si sono immatricolate poco più di 3.300 vetture full-electric, -8,7% in confronto allo stesso mese del 2022, con una quota di mercato sotto il 3% (dati Motus-E).
Così “continuiamo a essere un’anomalia tra i big d’Europa”, ha commentato Francesco Naso, segretario generale di Motus-E. Nel 2022, ad esempio, la Germania ha visto crescere le vendite di auto elettriche del 32% (più di 471mila unità), mentre la Spagna ha registrato un +30% e la Francia un +25%. In Germania la quota delle elettriche sul totale venduto è salita al 18% circa.
La controtendenza italiana si spiega, almeno in parte, con la mancanza di più forti incentivi per acquistare le vetture a batteria. Il nostro Paese anzi continua a incentivare pure gli acquisti di modelli ibridi e di auto con motori endotermici, nella fascia 61-135 grammi di CO2/km, anziché concentrare i bonus statali sui modelli elettrici.
E dalla politica sono sempre arrivati segnali contradditori.
Dietro il paravento della neutralità tecnologica, già il Governo Draghi e ora il Governo Meloni hanno dato spazio ai timori delle filiere industriali, preoccupate di perdere competitività, competenze manifatturiere e posti di lavoro a causa del boom elettrico.
Al contrario, un recente studio mostra che in Italia i posti di lavoro potrebbero aumentare nel loro complesso, e non diminuire, con il passaggio verso una industria automotive sempre più incentrata sulla trazione elettrica e sulla relativa componentistica.
Il mercato italiano rischia però di diventare un mercato di serie B, dove finiranno i veicoli diesel e benzina invenduti altrove, restando ai margini dei piani di sviluppo dei costruttori che maggiormente puntano sulle auto elettriche.
Già si delinea una frattura tra mercati che corrono verso il futuro – con in testa i Paesi del nord Europa – e quelli che invece, come l’Italia, stanno alla finestra.
Dire di no alle auto elettriche è certamente più facile, oltre che più conveniente per ottenere consenso politico immediato, che realizzare una nuova politica industriale.
La Cina però è già pronta a conquistare fette cospicue di mercato con i suoi modelli elettrici a basso costo.
Nel 2025, secondo l’organizzazione ambientalista Transport & Environment (TE), i marchi cinesi potrebbero soddisfare fino al 18% della domanda europea di vetture elettriche
In definitiva, se il mercato automobilistico europeo finirà in mano alla concorrenza cinese, dipenderà, in buona parte, da noi, dalla capacità europea e dei singoli governi nazionali di rispondere alle sfide del nuovo corso industriale.