I sospetti sulla COP28: dalle resistenze sul fossile al controllo del dissenso

Il 30 novembre il mondo si riunirà a Dubai per discutere della crisi climatica: la COP28 rischia però di essere un altro "evento di transizione". In troppi mettono le mani avanti sullo stop ai combustibili fossili.

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Entro pochi decenni l’arcipelago di Tuvalu potrebbe essere totalmente inghiottito dall’innalzamento del mare: il piccolo Stato insulare polinesiano, a metà strada tra le Hawaii e il continente oceanico, ha recentemente raggiunto un accordo con l’Australia che prevede il riconoscimento da parte di Canberra della cittadinanza per tutti gli 11mila abitanti e la possibilità di ottenere liberamente visti per “vivere, lavorare e studiare” sul territorio nazionale.

Tuvalu fa parte dell’Alliance of Small Island States (Aosis), un’organizzazione composta da 39 membri che da tempo lotta per mostrare quanto significativi siano per Paesi simili gli effetti del cambiamento climatico.

Pa’olelei Luteru, diplomatico samoano e presidente dell’Aosis, sarà presente alla COP28, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che inizierà il 30 novembre a Dubai, negli Emirati Arabi: ci andrà “per ottenere il miglior risultato possibile per i nostri compagni isolani vulnerabili” in prima linea “in questa crisi che non è stata causata da noi”. Il tavolo Onu è infatti l’unico spazio in cui tutti, dai Paesi più ricchi del mondo a quelli più piccoli e “marginali”, avrebbero in teoria un po’ di voce in capitolo.

Quest’anno al forum presieduto dal sultano Ahmed al-Jaber (che, è bene ricordarlo, è amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia petrolifera nazionale) il tema delle responsabilità sarà centrale. Troppo spesso i Paesi principalmente colpiti dagli eventi estremi causati dal cambiamento climatico sono quelli che vi hanno contribuito in minima parte, e quelli che per motivi economici fanno più fatica ad adottare strategie di mitigazione e adattamento.

Certamente si tornerà a discutere del loss&damage, l’accordo stipulato nella scorsa edizione della Conferenza tenutasi a Sharm el-Sheikh che prevedeva la creazione di un fondo di risarcimento finanziato dalle nazioni più sviluppate e destinato alle politiche ambientali dei Paesi a basso reddito.

L’idea è rimasta in sospeso e rischia di finire come l’impegno preso alla COP15 di Copenaghen del 2009 nel quale i ricchi del mondo avevano promesso 100 miliardi di dollari all’anno per contrastare il cambiamento climatico dei Paesi meno sviluppati: la quota non è mai stata raggiunta.

Troppo spesso la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima si trasforma in una passerella di buone intenzioni proclamate e rimandate a un futuro che però, nei fatti, non può più attendere. Perdendo lo spirito per il quale è stata creata: discutere, soprattutto confrontandosi con i Paesi più in emergenza, di provvedimenti urgenti da prendere per fermare il disastro ambientale.

Non è raro che i lavori si chiudano con impegni non vincolanti e litigi lessicali sulla loro capacità di apportare cambiamenti.

L’ultimo è già in corso, ancora prima dell’inizio della Conferenza: alle pre-COP di ottobre Al-Jaber ha presentato i suoi obiettivi per l’evento: “A responsible phase down of unabated fossil fuels”, cioè una riduzione graduale dei combustibili fossili “non trattati”.

Il termine “unabated” darebbe la possibilità a tutti i Paesi del mondo di continuare ad utilizzare gas, petrolio e carbone, a patto che catturino il carbonio che deriva dalla loro combustione.

Anche la posizione dell’Ue, solitamente la più ambiziosa, si è ammorbidita portandosi su questa linea e limitandosi a chiedere un abbandono “graduale” delle fonti climalteranti; difficile dunque che per le fossili da questa COP arrivi la frenata che servirebbe.

La fotografia dei progressi in termini ambientali fatta dagli esperti imporrebbe di superare schermaglie simili e prendere la situazione maggiormente di petto.

Il vertice di Dubai è infatti l’ottavo dopo l’Accordo di Parigi del 2015, uno dei punti cardine delle recenti politiche climatiche, che impone il contenimento del riscaldamento globale entro 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali: a questa scadenza si decise otto anni fa di far coincidere la pubblicazione di un rapporto che mostrasse lo stato dell’arte, il Global Stocktake dell’Unfccc.

Il documento è arrivato, e le sue valutazioni non sono positive. Gli NDC (“Nationally Determined Contributions“, i piani nazionali non vincolanti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra) dei 195 firmatari dell’accordo di Parigi sono stati giudicati insufficienti.

Gli impegni presi ad oggi per tagliare le emissioni ci stanno conducendo verso un aumento delle temperature di 2,5-2,9 °C a fine secolo, afferma il programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep) nel suo Emissions Gap Report 2023.

Gli ultimi dati scientifici del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici dell’Onu indicano invece che le emissioni di gas serra devono essere ridotte del 43% da qui a sei anni se confrontate con i livelli del 2019.

In merito ai piani energetici, solo il 4% dei Paesi ha intenzione di eliminare i sussidi ai combustibili fossili e appena il 39% di ridurre le emissioni di metano e ossido di diazoto legate all’agricoltura.

Tra i più restii ad abbandonare le fonti sporche c’è la Cina, il cui peso nel dibattito è enorme, essendo il gigante asiatico il più grande produttore mondiale di gas serra. In patria gli investimenti sulle energie rinnovabili non hanno paragoni a livello globale (quasi 4 volte la somma spesa dagli Stati Uniti), ma Pechino continua anche a consentire la produzione di nuova energia elettrica alimentata a carbone. Il suo inviato per il clima, Xie Zhenhua, ha definito “irrealistica” qualsiasi eliminazione graduale dei combustibili fossili.

Un nodo che non è stato risolto neanche dal bilaterale tra Xi Jinping e Biden, anche se gli Stati Uniti hanno ottenuto che la Cina accetti di includere altri gas serra oltre al biossido di carbonio nei piani di riduzione dei prossimi obiettivi climatici.

Tra gli altri grandi attori internazionali presenti ai colloqui, ci si aspetta che Russia e Arabia Saudita – due dei principali esportatori di petrolio e gas – provino a frenare gli argini al fossile.

Riyad vorrebbe eliminare gradualmente l’inquinamento da gas serra, ma non i combustibili fossili, continuando a bruciare (e vendere) fonti climalteranti e catturando al tempo stesso le emissioni con una tecnologia che non è ancora disponibile su larga scala, mentre Mosca si è già espressa esplicitamente contro “qualsiasi disposizione o risultato che in qualche modo discrimini o richieda l’eliminazione graduale di qualsiasi specifica fonte energetica”.

Viste le premesse molti analisti hanno descritto la COP28 come un “evento di transizione”, è quindi probabile che in tanti restino delusi.

Questo probabile scenario apre forse l’ultimo grande tema del forum: la gestione del dissenso. Le leggi degli Emirati Arabi pongono severe restrizioni alla libertà di espressione e il disaccordo pacifico viene sistematicamente criminalizzato, con il rischio che la società civile venga tagliata fuori dal dibattito.

Il segretario dell’Unfccc Simon Stiell ad agosto aveva assicurato che ci sarebbero stati spazi in cui gli attivisti avrebbero potuto riunirsi pacificamente per sentire la propria voce, ma – come ha ammonito Human Rights Watch – non è chiaro “come potranno farlo in sicurezza e in modo politicamente significativo in un Paese dove gli spazi civici sono costantemente limitati”.

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