Stiamo sottostimando i dati sulle emissioni globali

Diversi studi e analisi internazionali dimostrano come spesso i numeri forniti dai governi siano obsoleti o poco affidabili.

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Le politiche energetiche mondiali e gli obiettivi di contenimento della CO2 (e degli altri gas serra) vengono determinati sulla base delle comunicazioni sulle emissioni prodotte che i Paesi forniscono agli organismi internazionali.

Ma quanto sono affidabili e aggiornati i dati dei governi nazionali? Non tantissimo, se si sommano diversi studi indipendenti che mettono in dubbio la veridicità delle stime “ufficiali”, utilizzate come fonte primaria per qualsiasi scenario predittivo o intervento legislativo.

Questo accade perché le norme di rendicontazione per gli inventari nazionali sono spesso figlie di compromessi politici, e perché c’è una grande differenza tra i Paesi ricche e sviluppati – conosciuti nel gergo climatico delle Nazioni Unite come nazioni dell’Allegato 1 – e quelli in via di sviluppo.

I primi sono soggetti a criteri più stringenti, mentre i secondi, nonostante vedano tra le proprie fila Paesi come la Cina e l’India, oppure gli Stati del Golfo, tra i principali emettitori globali, devono rispettare paletti meno rigorosi. Basti pensare che prima dell’accordo di Parigi del 2015 questi Paesi non avevano alcun obiettivo di riduzione delle emissioni.

I dati forniti all’Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) e pubblicati online sono generalmente obsoleti.

Gli Stati non presenti nell’Allegato 1 non sono tenuti a presentare aggiornamenti quadriennali, accade così che Paesi come la Siria, il Myanmar oppure Haiti siano fermi a rilevazioni vecchie almeno dieci anni (rispettivamente i dati risalgono al 2010, 2012 e 2013). Come evidenziato nella mappa in basso (dati Unfccc, grafica Yale Environment 360), la Libia ad esempio non ha mai fornito il dato sulle proprie emissioni.

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Un’analisi di Yale Environment 360, rivista della Yale School of the Environment, basata sui dati delle Nazioni Unite, ha rilevato che il Qatar – lo Stato del Golfo con le più alte emissioni di CO2 pro capite al mondo (35 tonnellate) – ha praticamente rinunciato a denunciare pubblicamente le proprie emissioni: la sua ultima comunicazione all’Unfccc risale al 2011 e riporta dati del 2007. Da allora, osservano gli analisti, le emissioni non dichiarate del Paese sono quasi raddoppiate.

Negli Stati Uniti, un’indagine pubblicata questo mese dopo rilievi fatti sull’aria sopra i giacimenti di petrolio e gas naturale del Paese ha rilevato che questi emettono tre volte più metano – responsabile di un terzo dell’attuale riscaldamento globale – rispetto a quanto riportato dalla Casa Bianca.

Ancora, John Liggio, ricercatore sulla qualità dell’aria presso Environment and Climate Change Canada, ha verificato le emissioni dichiarate dal suo governo derivanti dall’estrazione ad alta intensità energetica dei depositi di sabbie bituminose in Alberta: le misurazioni effettuate – sfociate in un articolo pubblicato su Nature – hanno suggerito che le emissioni reali fossero superiori del 64% rispetto a quelle ufficiali.

I dati satellitari analizzati dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) nel 2022 mostrano invece che le emissioni di metano dai giacimenti di petrolio e gas a livello globale sono circa il 70% più elevate di quanto affermato dai governi, principalmente a causa di perdite e flaring (pratica che consiste nel bruciare senza recupero energetico il gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio) non segnalati.

Per quanto riguarda la Cina, la valutazione delle emissioni di combustibili fossili del Paese da parte del Database delle emissioni per la ricerca atmosferica globale della Commissione europea ha rilevato che queste sono il 23% in più rispetto a quanto dichiarato da Pechino nella dichiarazione alle Nazioni Unite per lo stesso anno. Due anni fa inoltre il ministero dell’Ambiente cinese ha scoperto che quattro società che controllavano le dichiarazioni di compensazione avevano regolarmente falsificato i risultati dei test, nascosto dati sulla produzione di energia e fornito rapporti di verifica fittizi.

Un report pubblicato lo scorso luglio su SSRN e condotto dalla Scuola di Giurisprudenza di Stanford accende invece i riflettori sulle emissioni “invisibili” non contabilizzate, che sarebbero in teoria misurabili ma che vengono escluse dai registri istituzionali: secondo gli analisti questi rilevano solo al 70% i gas nocivi nell’atmosfera, con il restante 30% che resta omesso.

È come se i decisori mondiali si stessero muovendo alla cieca, orientando le proprie scelte sulla base di proiezioni scenari incompleti. Alcuni settori ad alte emissioni sono espressamente esclusi dal sistema di rendicontazione delle Nazioni Unite perché non esiste un accordo su come distribuirle negli inventari nazionali. Questi includono ad esempio il trasporto aereo e le spedizioni internazionali, che rappresentano circa il 5% delle emissioni globali.

Un’altra categoria è l’attività militare. Matthias Jonas, scienziato ambientale presso l’Istituto internazionale per l’analisi dei sistemi applicati in Austria, ha rilevato che l’uso di carburante militare, il lancio di missili e munizioni e gli incendi provocati dai bombardamenti durante i primi 18 mesi del conflitto in Ucraina hanno causato più emissioni di quelle del Portogallo.

L’anno scorso il think tank britannico Common Wealth ha calcolato che le forze armate a livello globale potrebbero essere responsabili di oltre il 5% delle emissioni globali di CO2.

L’Unfccc richiede ai Paesi di riferire regolarmente e in dettaglio sulle proprie emissioni di gas serra, ma non ha il potere di obbligarli. E finché sarà così, ogni dato sarà contestabile e non del tutto affidabile.

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