In Cina è appena partito (ieri, lunedì 1 febbraio) il primo mercato nazionale del carbonio con cui Pechino punta a ridurre le emissioni di CO2 dei settori industriali più inquinanti.
È un sistema analogo all’ETS europeo (Emissions Trading Scheme), dove si assegnano quote di emissione ai partecipanti e chi inquina oltre il limite consentito, deve acquistare crediti di CO2 sul mercato dalle aziende più virtuose.
Per il momento, in Cina sono coinvolte più di 2.200 compagnie del settore energetico che in totale emettono circa 26.000 tonnellate/anno di anidride carbonica.
Il meccanismo, spiega l’agenzia cinese Xinhua, sarà esteso gradualmente ad altri comparti industriali come cementifici, acciaierie, stabilimenti petrolchimici, cartiere e così via.
Ci sono tutte le potenzialità per far diventare quello cinese il mercato ETS più grande del mondo, ma nella fase iniziale il meccanismo sembra avere le armi un po’ spuntate, perché il prezzo di partenza della CO2 è molto basso: si parla di circa 50 yuan, quindi intorno ai 6 euro per tonnellata di CO2, mentre sull’ETS europeo il prezzo ha toccato 33 euro/ton all’inizio del 2021.
Molto basse sono anche le penalità che devono pagare le industrie che sforano i tetti consentiti di CO2.
La strada da fare quindi è molta. Ricordiamo che la Cina ha annunciato lo scorso settembre di voler azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2060 e raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030.
Poi il presidente Xi Jinping ha affermato che il Paese potrà contare su 1.200 GW di potenza installata nell’eolico e nel fotovoltaico tra dieci anni.
Intanto Pechino ha installato circa 120 GW di impianti eolici e solari nel 2020, numeri-boom che però si affiancano ai continui investimenti nel carbone con oltre 250 GW di nuovi impianti fossili tra quelli in costruzione, in fase di approvazione o solamente annunciati/pianificati.
Diverse incognite si stanno poi addensando sui rapporti commerciali internazionali e in particolare tra Europa e Cina.
La Commissione Ue, infatti, a giugno presenterà una proposta legislativa per una sorta di “tassa” alla frontiera sulla CO2.
Si parla di un meccanismo fiscale per far pagare la CO2 alle aziende straniere che inquinano di più, un Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) volto a colpire le importazioni di determinate materie prime e determinati prodotti.
Ma un diplomatico cinese, Fei Shengchao, citato dall’agenzia EurActiv (Shengchao era intervenuto a un evento online sul tema organizzato dalla stessa agenzia), ha già fatto sapere che questa opzione richiede di essere ulteriormente discussa tra i soggetti coinvolti.
Insomma, non sarà certo facile per Bruxelles fissare un prelievo alla frontiera sul contenuto di CO2 delle importazioni, rendendolo pienamente compatibile con le regole di libera concorrenza del WTO e senza rischiare di indebolire le relazioni commerciali con i partner europei, in primis quelli asiatici.
Per un approfondimento si veda l’articolo Chi inquina paga, anche alla frontiera: ecco come l’Europa pensa di “tassare” la CO2.