Direttiva Case green, perché gli obiettivi non devono spaventare

I nuovi target Ue richiedono uno sforzo molto minore di quanto si pensi. Anzi, sono un'opportunità. Meglio pensare per tempo agli strumenti per raggiungerli che perdere tempo a lamentarsi per puri fini elettorali.

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Dopo l’approvazione da parte del Consiglio europeo della nuova direttiva sulle prestazioni energetiche dell’edilizia, ribattezzata da molti “direttiva Case verdi”, si sono succeduti sui media vari articoli dal tono più o meno preoccupato per i potenziali costi della riqualificazione di qualche milione di edifici (la cifra non era sempre la stessa).

Vediamo cosa dice la direttiva, in fase di pubblicazione. In sintesi i punti fondamentali sono i seguenti:

• strategia di decarbonizzazione al 2050, inclusiva di traiettoria con obiettivi intermedi al 2030 e 2035 per il consumo medio di energia primaria;

• nuovi requisiti minimi da rispettare in caso di nuove costruzioni e ristrutturazioni;

edifici nuovi a emissioni zero – ossia in grado di non produrre emissioni a livello locale e caratterizzati da una domanda di energia massima – dal 2028 per il settore pubblico e dal 2030 per i privati;

• spinta ulteriore al solare e/o alle altre rinnovabili, ai sistemi di monitoraggio e automazione, alla riduzione progressiva degli impianti basati su fonti fossili e al collegamento con la mobilità elettrica;

• istituzione di sportelli unici secondo criteri di popolazione, geografici o amministrativi;

• introduzione di un passaporto per la ristrutturazione degli edifici, il cui utilizzo potrà essere volontario o cogente a scelta del singolo Stato membro;

• promozione di mutui ipotecari e strumenti finanziari adeguati;

nuovi criteri per le classi energetiche e per la redazione degli attestati di prestazione energetica;

• nuovi obiettivi per edifici del terziario e del residenziale.

In sostanza è una direttiva che introduce una serie di strumenti e indicazioni utili per procedere sulla strada della decarbonizzazione ma, soprattutto, per ammodernare il parco immobiliare, con tutti i benefici che questo comporta per gli occupanti e i proprietari degli edifici, nonché per l’economia del Paese, la sicurezza energetica, la salute, eccetera.

Sugli ultimi due punti dell’elenco vale la pena di fare qualche considerazione in più. Le classi energetiche saranno riviste dagli Stati membri, in modo che vadano dalla A (edifici a emissioni zero) alla G.

Mentre nelle versioni precedenti della bozza di direttiva era indicato un criterio per definire l’appartenenza alla classe G (“il 15% degli immobili peggiori in termini di performance”), ora è solo scritto che “corrisponde agli edifici con le prestazioni peggiori del parco immobiliare nazionale al momento dell’introduzione della scala”.

Dal momento che l’appartenenza alle singole classi dipende dalla soglia identificata per quella peggiore e dal criterio di distribuzione (che la direttiva chiede sia “adeguato”) è evidente che c’è ampio spazio per prendere decisioni che poi possono impattare in modo rilevante sugli obiettivi per il residenziale.

Per questi ultimi, infatti, gli obiettivi prevedono una riduzione del 16% del consumo medio di energia primaria dell’intero parco immobiliare residenziale entro il 2030 e del 20-22% entro il 2035.

Visto che molti attestati di prestazione energetica (Ape) sono compilati in modo “prudenziale”, più per rispettare l’obbligo di redazione che per una reale guida all’acquisto di casa, è chiaro che già aggiornandoli con criteri più precisi si potrebbe, paradossalmente, andare vicini all’obiettivo senza grande impegno. In ogni caso il rispetto della riduzione dei consumi appare alla portata con pochi interventi.

Entrambi gli obiettivi, però, prevedono che il 55% della riduzione del consumo medio di energia primaria provenga dalla ristrutturazione del 43% di edifici residenziali con le prestazioni peggiori. Questo target evidentemente dipenderà dalla definizione della classe G, che potrà raccogliere un numero di immobili più o meno ampio.

Diciamo che più che stracciarsi le vesti su un numero di edifici immaginato sulla base della classificazione attuale, converrebbe mettersi da subito a lavorare per individuare la nuova classificazione in modo intelligente. Anche perché i due target al 2030 e al 2035, il secondo addirittura espresso come intervallo di valori, sono decisamente più abbordabili rispetto alle versioni precedenti del provvedimento.

Per gli edifici non residenziali il criterio è diverso. Gli Stati membri devono definire due soglie di prestazione energetica “massima” in modo che, rispettivamente, il 16% e il 26% del parco non residenziale superi tali soglie. L’obiettivo prevede che al 2030 tutti gli edifici non residenziali siano al di sotto della prima soglia ed entro il 2033 al di sotto della seconda. Anche in questo caso, dai dati sugli Ape disponibili sulla banca dati Siape, in questo caso direttamente utilizzabili, i target non appaiono trascendentali.

Aggiungiamo che sono previste esenzioni per entrambi i gruppi di immobili, residenziali e non, in virtù del valore storico-architettonico e per edifici di culto e della difesa, case con utilizzo annuale limitato, edifici industriali e agricoli a basso consumo energetico, fabbricati temporanei, ecc.

Alla fine della fiera, mi pare che la nuova proposta di direttiva sia decisamente più fattibile delle versioni precedenti e rappresenti una buona opportunità in termini di miglioramento dei nostri immobili, a prescindere dalla destinazione d’uso.

Piuttosto, il mio suggerimento è di andare oltre gli obiettivi, cercando di mettere comunque in campo strumenti che facilitino interventi di riqualificazione profonda su un insieme limitato di edifici, a partire da chi versa in condizioni di disagio economico, insieme ad altri meno costosi, ma in grado di far fare comunque un passo avanti importante in termini di emissioni e riduzione dei costi.

A tale proposito si può spingere, ad esempio, sui sistemi di building automation, per ottimizzare le prestazioni degli impianti e garantire il massimo comfort agli occupanti, insieme a pompe di calore accoppiate a sistemi fotovoltaici. Interventi, peraltro, che la consultazione in corso sul conto termico giustamente prevede.

Andrebbero inoltre riviste le regole di accensione, spegnimento e modulazione degli impianti termici e di raffrescamento, in modo che seguano il reale andamento del clima, invece di rimanere accesi quando non servono e spenti quando sarebbe utile.

Ovviamente le politiche energetiche giocano un ruolo rilevante in questo contesto, tanto più visti i danni prodotti dal Superbonus 110%. È però importante assicurare un supporto economico – come quello offerto da Ecobonus, Bonus Casa e Conto termico – e, soprattutto, finanziario in un’ottica di medio periodo, al fine di facilitare la ripresa e il rafforzamento della filiera di settore.

Sarebbe ora di rilanciare il Fondo nazionale Efficienza energetica, un fondo di garanzia e in conto interessi che potrebbe risultare molto utile da questo punto di vista, insieme alla promozione di strumenti di finanziamento bancari competitivi.

Dunque, meglio pensare per tempo ai possibili strumenti di regolazione e supporto che passare il tempo a lamentarsi per puri fini elettorali, per di più divisivi e laceranti per il tessuto sociale in un momento in cui servirebbe tanto un agire costruttivo.

Un ultimo punto interessante è quello sugli sportelli energia – i cosiddetti one-stop-shop – che potrebbero svolgere un ruolo importante, purché distribuiti in modo adeguato e dotati degli strumenti per offrire un reale supporto alle famiglie. È una bella sfida, vediamo se sapremo vincerla, almeno parzialmente.

Vale la pena di ricordare, in conclusione, che ridurre i consumi e le emissioni, prima che agli obiettivi comunitari, risponde a un’esigenza di riduzione dei rischi e dei costi per gli approvvigionamenti di famiglie e imprese, di diminuzione delle emissioni nocive e delle conseguenti spese sanitarie, di aumento della sicurezza energetica del Paese e di contenimento del rischio sul debito pubblico in caso di nuove crisi dei prezzi, visto che più si riduce la domanda, meno peseranno eventuali bonus messi in campo (o, in alternativa, minori saranno gli effetti del disagio sociale).

Questo, a mio avviso, dovrebbero cercare di conseguire i nostri politici e le nostre istituzioni.

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