Direttiva edifici green: non c’è nessuna “follia” (1a parte)

Siamo già a buon punto su parte degli obiettivi. Il “terrorismo” sugli obblighi di ristrutturazione serve solo a distrarre, ad ancorare l’Italia al passato e a decretarne la crescente irrilevanza industriale ed economica.

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Il Parlamento europeo ha ufficialmente approvato la settimana scorsa la quarta modifica della Direttiva sul rendimento energetico degli edifici (Energy Performance of Buildings Directive o EPBD IV).

La notizia ha suscitato reazioni allarmistiche sugli obblighi di ristrutturazione dello stock edilizio, nonostante i contenuti della norma siano stati annacquati rispetto alle proposte dei mesi precedenti.

Le critiche più comuni sono che i proprietari non riusciranno più ad affittare o vendere le loro case se non le efficienteranno, che altrimenti il valore delle loro abitazioni calerà molto, che saranno costretti a spendere molti soldi di tasca loro oppure che si tratta di una tassa patrimoniale occulta.

Cercheremo di sintetizzare gli impegni che la direttiva comporterà e come soddisfarli. Ma prima è utile inquadrare brevemente il provvedimento nella sua cornice formale, per cercare di alleviare almeno in parte i timori suscitati fra i proprietari di case da alcune parti politiche.

La cornice formale

Vale la pena ricordare due punti: il primo è che la EPBD è una direttiva, non un regolamento europeo. La distinzione è rilevante perché, a differenza dei regolamenti, le direttive si rivolgono esclusivamente agli Stati membri, cioè non impongono obblighi alle persone fisiche e giuridiche, e non sono immediatamente applicabili nei singoli Paesi, ma devono essere prima recepite negli ordinamenti giuridici interni.

Ciò vuol dire che le direttive vincolano gli Stati al raggiungimento di determinati scopi entro un certo limite temporale, lasciando però loro piena libertà quanto alla scelta della forma e dei mezzi da utilizzare.

È ipotizzabile, visto che la stessa direttiva lo prevede, che nella legge di recepimento ci siano molte eccezioni ai vari obblighi. E sarà comunque lo Stato a dover mettere in condizione i suoi cittadini di conformarsi ai principi della direttiva, se vuole adempiere ai suoi obblighi e non incorrere in procedure di infrazione.

Anche la possibilità di introdurre sanzioni o divieti di affitto o vendita per eventuali inadempienze dei proprietari sarà appannaggio esclusivo dei Paesi membri. Pare quindi altamente improbabile che ciò avvenga in Italia, viste le posizioni già espresse dal governo e dall’attuale maggioranza parlamentare, tanto che alcuni suoi esponenti hanno appunto definito la norma come una “follia”.

Il secondo punto è che non siamo di fronte a delle novità inaudite. Quella appena approvata è la quarta incarnazione della direttiva. Non è che nelle tre precedenti i proprietari di case si siano dovuti svenare per rispettarne i principi, anche se un maggiore impegno su questo fronte probabilmente sarebbe servito.

Prima che i proprietari debbano fasciarsi la testa per questa direttiva, ce ne passa, sia nella forma che nella sostanza.

Gli obiettivi della direttiva

La direttiva prevede una riduzione del consumo medio di energia primaria degli edifici residenziali del 16% entro il 2030 rispetto al 2020 e del 20-22% entro il 2035.

Ogni Stato membro dovrà ristrutturare il 16% degli edifici non residenziali con le peggiori prestazioni entro il 2030 e il 26% dello stesso gruppo entro il 2033 e dovrà adottare misure volte a eliminare gradualmente l’uso di combustibili fossili nei sistemi di riscaldamento entro il 2040.

Più nel dettaglio, gli Stati membri dovranno garantire che gli edifici e le unità immobiliari residenziali conseguano almeno la classe di prestazione energetica “E” entro il 1º gennaio 2030 e la classe “D” dal 1º gennaio 2033.

Gli edifici pubblici e privati adibiti a uffici e a usi non residenziali dovranno invece conseguire almeno la classe “E” entro il 1º gennaio 2027 e la classe “D” dal 1º gennaio 2030.

A partire dal 2028, gli edifici pubblici di nuova costruzione e dal 2030 tutte gli altri nuovi edifici dovranno essere ad emissione “zero” di combustibili fossili.

Dal 2025, inoltre, non sarà possibile usufruire di incentivi pubblici per le caldaie a combustibili fossili, anche se resteranno invece incentivabili i sistemi di riscaldamento ibridi, cioè a metano con pompa di calore.

Non partiamo da zero

Nella sostanza, è importante sottolineare che non partiamo da zero in questa scalata verso gli obiettivi europei, grazie a quanto già realizzato nell’ambito del Superbonus e degli altri bonus edilizi.

Nel 2020, anno di riferimento per misurare le riduzioni previste dalla direttiva, il consumo elettrico è stato complessivamente di 301,2 miliardi di kWh, di cui 66,2 miliardi in ambito domestico, secondo dati Terna.

Nel solo 2022, le misure di efficientamento energetico incentivate dal Superbonus hanno permesso un risparmio complessivo di 9 miliardi di kWh, secondo dati Enea. A questi si aggiungono oltre 3 miliardi di kWh di risparmi del 2021, per complessivi 12,1 miliardi di kWh nel periodo 2021/22, cui andranno sommati i risparmi ottenuti nel 2023, non ancora ufficializzati da Enea.

Un risparmio in due anni di 12,1 miliardi di kWh, rispetto ai 66,2 miliardi di consumi domestici del 2020, rappresenta una riduzione dei consumi di energia pari al 18,2%, che dovrebbe superare il 20% quando saranno computati i risparmi determinati dal Superbonus nel 2023. A questi andrebbero poi aggiunti i risparmi energetici ottenuti dal 2020 ad oggi con altre misure, come l’Ecobonus 65%.

In altre parole, grazie al Superbonus e agli altri bonus edilizi, l’Italia avrebbe già superato l’obiettivo del 16% di riduzione dei consumi di energia primaria degli edifici residenziali al 2030, e forse anche quello del 20-22% al 2035, o comunque dovrebbe esserci molto vicina.

Siamo quindi abbastanza ben avviati a centrare gli obiettivi della direttiva, anche se dovremo comunque rimboccarci le maniche per rispettare anche gli obiettivi relativi agli edifici pubblici e non residenziali. E anche per gli edifici residenziali non è il caso di dormire sugli allori.

“Ora stiamo assistendo a una brusca frenata che sarà evidentissima nella seconda metà dell’anno. Senza nuove misure di incentivazione, a fine 2025 avremo già perso tutto il vantaggio e cominceremo ad accumulare distacco dall’obiettivo”, ha avvertito Virginio Trivella, di Rete IRENE.

I numeri in gioco per l’Italia

Le necessità di efficientamento energetico rimangono comunque elevate, considerato che il 72% del patrimonio abitativo italiano stato costruito prima del 1980.

Per l’attuazione del Green Deal europeo nel settore residenziale servono 92 miliardi di euro di investimenti all’anno nel periodo 2021-2030, secondo uno studio dell’European Environment Agency.

“In proporzione ai consumi di energia del comparto residenziale per l’Italia sono in gioco 11 miliardi di euro all’anno, risorse che però con la nuova direttiva potrebbero essere insufficienti”, ha scritto recentemente Enrico Quintavalle, Responsabile Ufficio Studi di Confartigianato, secondo cui la transizione green degli edifici richiederà investimenti privati e adeguate politiche pubbliche di accompagnamento.

Quello che ora serve è insomma il coraggio di investire bene con regole buone e certe per il lungo termine. Il “terrorismo” di alcuni esponenti politici e organizzazioni sugli obblighi di ristrutturazione serve solo a distrarre dagli obiettivi, ad ancorare l’Italia al passato e a decretarne la crescente irrilevanza industriale ed economica.

Nei prossimi giorni la seconda parte di questo articolo che riguarderà i possibili approcci per raggiungere i target dell’Unione europea.

Il secondo articolo su questo tema: Direttiva edifici green, serve una programmazione migliore che per il Superbonus (2a parte) (pubblicato il 25 marzo 2024).

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