Chiamiamoli dinosauri, le potenti multinazionali dell’energia, per segnalarne il livello evolutivo e come segno di speranza: i dinosauri, primitivi ma potenti, si sono estinti e bisogna che anche questi si estinguano o si evolvano in altra specie, per evitare la nostra estinzione.
I dinosauri dell’Oil&gas
Le cose vanno abbastanza bene per i dinosauri dell’Oil&Gas, dopo il panico derivante dall’Accordo di Parigi del 2015: negli anni che seguono possono registrare un rassicurante costante aumento delle tonnellate di CO2 immesse in atmosfera, effetto dell’aumento della produzione.
Non hanno di che lamentarsi e poi c’è anche la ciliegina di Trump che esce dall’Accordo di Parigi. Non occorre più spendere soldi per negare o instillare il dubbio sul cambiamento climatico, semmai qualche dollaro di pubblicità in cui si mostra la foto di un campo eolico o fotovoltaico costruito coi loro soldi, o di un bidone di biocarburante per dimostrare che stanno contribuendo alla diminuzione delle emissioni.
L’unico fastidio sono le punture di insetto di quei rompiscatole della comunità scientifica internazionale con il loro catastrofismo, con le solite associazioni ambientaliste che fanno da cassa di risonanza.
Ma questo paradiso non dura a lungo.
Un amaro imprevisto di nome Greta fa rapidamente cambiare lo scenario. I giovani sembrano fare sul serio e l’opinione pubblica comincia a passare dall’indifferenza all’attenzione ai temi ambientali.
Si comincia a scendere in strada, si fanno cortei in tutto il mondo, Extintion Rebellion pratica la resistenza passiva con azioni di grande effetto mediatico. E come se non bastasse viene fuori il Green New Deal negli USA e il Green Deal dell’Unione Europea.
Sembra proprio che si voglia sul serio decarbonizzare l’economia. Un disastro. I dinosauri dell’Oil&Gas rimangono sgomenti. Segue un momento di sbandamento, ma presto si comincia a correre ai ripari.
E così, progetti che erano già in fase di sviluppo, ma con debole impegno, vengono ripresi con vigore, e bisogna ricominciare a spendere soldi per fare comunicazione distorcente la realtà e per impedire, con una pressante azione di lobby, decisioni politiche che possano essere dannose.
I vari progetti che vengono ripresi sono tutti all’interno di un unico grande progetto, il solito: aumentare sempre più i profitti aumentando sempre di più la produzione degli idrocarburi fossili e la loro immissione nel mercato.
Ma questa volta c’è un elemento nuovo, geniale, che trasforma un vincolo in una risorsa aggiuntiva. Il vincolo, si sa, è l’immissione di CO2 in atmosfera a causa della combustione di petrolio e gas (e di carbone, ma di questo sono i loro cugini più sfortunati ad occuparsene).
Come trasformarlo in risorsa? Semplice. Sotterrandola. E già, perché i dinosauri dell’Oil&Gas hanno competenze ineguagliabili in geologia e nei modi di manipolare gli strati più profondi della crosta terrestre: lo fanno da sempre.
Dunque, sono i soli ad avere la capacità di pompare sottoterra la CO2 prodotta dalla combustione. Certo, ci sono problemi tecnici da superare, come per qualsiasi cosa nuova, e costa tanto; costo che bisogna sia pagato dalla collettività.
In questo modo e qui sta la loro genialità, i dinosauri si fanno pagare sia il combustibile sia il sotterramento della CO2 prodotta, e sono pure benemeriti perché non contribuiscono al riscaldamento globale. Favoloso. Certo, qualche rischio che la CO2 possa rispuntare fuori attraverso fessure o altro magari a causa di un terremoto c’è. Ma è un rischio risibile, assicurano i geologi, cercando di farci credere che improbabile significa impossibile.
E dunque, al lavoro. In una prospettiva di crescita senza limiti dell’uso dei combustibili fossili (tanto con la tumulazione non s’immette più la CO2 in atmosfera, e quindi perché limitarne l’uso?) bisogna investire in nuove prospezioni, in nuovi gasdotti e oleodotti, con il sostegno della finanza mondiale, che vede rinascere la possibilità di fare profitti da un settore il cui destino sembrava segnato.
Così gli investimenti aumentano. Li fanno i dinosauri dell’Oil&Gas, non solo quelli americani, ma anche quelli europei quali BP, Repsol, Eni, Shell e Total. E tutti nei loro piani pluriennali prevedono un aumento dell’estrazione, esclusa BP.
E sì che in Europa abbiamo approvato il Green Deal e dobbiamo ridurre del 55% le emissioni entro il 2030. Ma anche questo si supera, giocando sull’ambiguità dell’espressione “net zero emissions”, emissioni nette zero, usata al posto di “zero emissions” nei documenti ufficiali; un’espressione che suggerisce che si può continuare a immettere CO2 in atmosfera, bruciando combustibile fossile, purché si trovi il modo di sottrarne una quantità equivalente.
Su quest’ambiguità giocano i dinosauri dell’Oil&Gas, perché nei piani non c’è solo il sotterramento della CO2, che permette di non aumentare le emissioni, ma addirittura c’è l’assorbimento delle emissioni, attraverso due soluzioni messe in atto in parallelo.
La prima è quasi banale. Comprare ettari ed ettari di terreno e farli diventare bosco: crescendo gli alberi assorbiranno in po’ della CO2 che si produce bruciando petrolio e gas. E così tutti i dinosauri dell’Oil&Gas strombazzano ai quattro venti i loro piani di forestazione.
Certo, osservano gli ecologi maliziosi, mai contenti, in questo modo si fanno dei boschi monoculturali che riducono la biodiversità, sono pochissimo resilienti e facile preda di incendi (col che restituiscono la CO2 che avevano assorbito).
Inoltre, si chiedono i più maliziosi, dove sono questi ettari? Sono in paesi in via di sviluppo, e sono sottratti a una produzione agricola sia pure di sussistenza, oppure si tratta di terreni prima adibiti a pascolo e quindi con funzioni economiche ed ecologiche?
Ma il vero colpo da maestro viene dall’altra soluzione, chiamata in gergo Beccs (Bio Energy with Carbon Capture and Storage, Bio Energia con Cattura e Stoccaggio del Carbonio), che consiste nel fare una bella coltivazione energetica (alberi a rapido accrescimento, canna da zucchero, colza, eccetera), e usare come combustibile la biomassa ottenuta.
La CO2 prodotta dalla combustione viene pompata sottoterra. Così la pianta assorbe CO2 dall’atmosfera, produce energia e la CO2 non torna in atmosfera; quindi in totale c’è sottrazione e la concentrazione in aria diminuisce.
Ma ci sono i soliti rompiscatole che dicono: è giusto utilizzare terreno per coltivare piante destinate a fare energia invece di cibo, quando 800 milioni di persone al mondo soffrono la fame? E rincarano la dose, dicendo: quanti fertilizzanti artificiali bisogna usare e quanta acqua per fare crescere queste piante, e quanti pesticidi?
Tutto questo non può che contribuire alla perdita di biodiversità, attraverso l’inquinamento delle acque e del suolo, oltre a sottrarre a usi più essenziali acqua sempre più scarsa a causa del cambiamento climatico. E comunque, l’estensione di foreste da piantare per assorbire tutta la CO2 prodotta e quella delle coltivazioni energetiche è necessariamente limitata: non possiamo rinunciare a coltivare il cibo.
Anche a queste obiezioni si può rispondere, superandole con un bel colpo di reni tecnologico, che si chiama Dac (Direct Air Capture). Il lavoro di assorbire la CO2 dall’aria non lo fa una pianta, ma un’apparecchiatura che attraverso processi chimici riesce a separarla dall’aria. E poi che si fa di questa CO2? Si sotterra, naturalmente.
Certo, per fare questo lavoro di separazione occorre energia, e tanta, quindi, se si usa una fonte fossile, da una parte si toglie CO2 ma per toglierla se ne immette un altro po’. Meno di quella che si toglie, naturalmente; il tutto non è molto efficiente ma pazienza. Certo, le piante sanno fare di meglio, usando solo energia solare. Si può provare a imitarle, facendo alimentare il processo Dac da elettricità prodotta da fonte rinnovabile, solare o eolica, e questo si può fare, ma i costi aumentano, e anche l’occupazione di suolo, pure se sempre minore di quella derivante dalle coltivazioni.
Foreste, Beccs e Dac sono comunque indispensabili per continuare ad aumentare la produzione.
Infatti, se è relativamente facile prendere i fumi da una ciminiera di una fabbrica o di una centrale elettrica, trattarli, estrarne la CO2 e poi pomparla sottoterra, magari dopo averla prima trasportata lungo una tubazione di centinaia di chilometri in un posto adatto alla tumulazione, lo stesso non può farsi con i tubi di scappamento di tutti i veicoli e con i camini delle caldaie delle case.
Inevitabilmente la CO2 prodotta finisce in aria. Ed ecco che entrano in scena, oltre alle foreste, Beccs e Dac, e il gioco è fatto. Si può tranquillamente continuare ad avere veicoli con motori a benzina e diesel e caldaie domestiche che vanno a gas metano.
Insomma, tutto resta com’è, la produzione di idrocarburi fossili aumenta ma la CO2 non aumenta. Certo il tutto viene a costare un bel po’, ma tanto, con un po’ di sana lobby a pagare sarà la collettività, mentre a guadagnare saranno i dinosauri.
Infatti, per esempio, ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total dal momento della approvazione dell’accordo di Parigi, hanno investito circa un miliardo di dollari per fare lobby e per fuorviare l’opinione pubblica.
In tutto questo, e i dinosauri dell’Oil&Gas ne sono ben coscienti, le fonti rinnovabili devono esserci, sennò che transizione ecologica è mai?
Ma è una necessità che torna utile, perché le rinnovabili hanno il difetto di non essere programmabili, ed è proprio a causa della non programmabilità delle rinnovabili che abbiamo bisogno delle centrali alimentate con combustibile fossile, in particolare le centrali a gas, che entrano in funzione quando le rinnovabili non sono in grado di soddisfare la domanda. Ci vogliono, ci dicono.
Però la non programmabilità si può compensare accumulando energia rinnovabile nei periodi in cui è in eccesso, per poi usarla quando serve, invece di attivare centrali termiche alimentate a gas.
L’accumulo si può fare con l’acqua (impianti idroelettrici e stazioni di ripompaggio), con l’idrogeno verde (cioè prodotto attraverso l’elettrolisi dell’acqua con elettricità prodotta da fonte rinnovabile) stoccato in grandi serbatoi, con il biogas da digestione anaerobica di materiale organico, con il syngas da pirolisi di materiale vegetale, con i combustibili di sintesi fatti combinando idrogeno verde e CO2 da biogas o syngas.
D’accordo, dicono i dinosauri dell’Oil&Gas, tanto vero che su molte di queste opzioni stiamo già lavorando, ma i costi sono elevati e le tecnologie non sono mature. E così cercano di distrarci dal fatto che i soldi che ci vogliono per sotterrare la CO2 si potrebbero più utilmente utilizzare per sviluppare e realizzare questi sistemi di accumulo.
E poi ci sarebbe da investire per innovare nel settore del cosiddetto Ccu (Carbon Capture and Utilisation, cattura e utilizzazione del carbonio).
Si tratta di fare quello che fanno gli alberi: assorbono la CO2 dall’atmosfera e la trasformano in materiale strutturale, il tronco e i rami, che poi possono diventare travi, sedie o cucchiai, per dire.
Si tratterebbe, cioè, di mettere in atto processi chimici che consentano di “congelare” il carbonio in materiale solido utilizzabile, per esempio, per fare fibre di carbonio, per integrarlo nei materiali da costruzione, eccetera.
E su questo tema “ci stiamo lavorando” ci rassicurano i dinosauri dell’Oil&Gas, ma non ci investono molti soldi. Il problema è che la quantità di CO2 in gioco per quest’operazione, considerando la domanda potenziale, è di parecchi ordini di grandezza inferiore alla quantità che si deve produrre continuando ad aumentare l’estrazione di idrocarburi.
E questo non va bene, per i dinosauri dell’Oil&Gas, che invece vedono con favore un’altra opportunità: cavalcare l’onda dell’idrogeno, oggi sostenuta con decisione dall’Europa. Onda che potrebbe, a prima vista, creare loro dei problemi.
Infatti, l’idrogeno di cui si parla è l’idrogeno verde. Questo idrogeno, che bruciando produce solo vapore d’acqua, potrebbe usarsi come vettore energetico al posto del metano e del petrolio.
Si può usare – con opportuni accorgimenti o trasformazioni – per i trasporti a lunga distanza (Tir, treni, navi, aerei, perché per le auto al momento convengono di più le batterie) e al posto del gas nelle centrali elettriche o trasformandolo in elettricità con le celle a combustibile. Inoltre. si può usare, in prospettiva, per decarbonizzare processi che richiedono alte temperature e nella produzione di acciaio e di cemento.
L’idrogeno è già prodotto, oggi, e in grandi quantità, con un processo (steam reforming) che si basa sul metano e produce CO2: si usa per fare fertilizzanti azotati e nell’industria chimica. Se si usasse idrogeno verde un’enorme fetta del mercato delle fonti fossili verrebbe messa fuori gioco.
Ed ecco la contromossa. Ottimo, dicono i dinosauri dell’Oil&Gas, noi che produciamo idrogeno da sempre siamo qui per andare nella direzione che vi proponete e vi offriamo, invece dell’idrogeno verde, l’idrogeno blu, che costa meno di quello verde e la cui produzione non provoca emissioni in atmosfera.
Che cosa è l’idrogeno blu? Semplice, è idrogeno ottenuto dal metano con il solito processo, solo che la CO2 prodotta non finisce in atmosfera, ma è sotterrata. Così anche l’idrogeno che occorre si può fare senza immettere un solo centimetro cubo di CO2 in atmosfera.
Si prefigura così un sistema energetico alimentato in parte da fonti rinnovabili e, in parte da combustibili fossili con la CO2 che va sottoterra e l’idrogeno usato come vettore energetico assieme all’elettricità. E così si raggiunge la condizione di net zero emissions nel 2050. E tutti sono contenti: l’opinione pubblica perché ci sono le rinnovabili e i dinosauri perché la produzione di Oil&Gas aumenta.
Resta un altro piccolo problema. L’obiettivo principale dei dinosauri dell’Oil&Gas è l’aumento della produzione di gas naturale, che è estratto in un luogo e da questo è trasportato per migliaia di chilometri attraverso i gasdotti o solo per centinaia verso porti in cui è liquefatto e poi imbarcato sulle metaniere.
Ebbene, le perdite di gas metano nei processi di estrazione e trasporto sono elevatissime, si è scoperto solo di recente attraverso misurazioni satellitari (i dinosauri, per la verità, l’hanno sempre saputo), e il gas metano è 30 volte più potente della CO2 ai fini dell’effetto serra.
La Iea (International Energy Agency) stima che i processi di estrazione e trasporto di petrolio e gas in tutto il mondo abbiano emesso in atmosfera nel 2019 una quantità di metano equivalente alle emissioni totali di CO2 per la produzione di energia dell’intera Unione Europea.
Pazienza. Rinforzando la Dac, il problema si risolve. E intanto la crosta terrestre si gonfia come un pallone, potremmo aggiungere noi, col sempre più grande rischio che si aprano delle perdite.
L’articolo è stato pubblicato sul n.2/2021 della rivista bimestrale QualEnergia
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