In tutte le opere di fiction ben riuscite, il protagonista non è mai buono o cattivo al 100%, ma ha lati luminosi e oscuri che lo rendono molto più interessante.
Nella non-fiction della transizione energetica, la Cina fa proprio la parte del personaggio “double face”, che lo spettatore fa fatica a giudicare: bisogna esaltarsi per le sue imprese positive oppure indignarsi per quelle malvagie?
Per gli scettici dell’azione contro il cambiamento climatico e per la transizione energetica, la risposta è semplice: la Cina è il villain della situazione, visto che è la maggiore emettitrice di CO2 del mondo (12,7 miliardi di tonnellate nel 2022, contro le 6 degli Usa), non riesce a farle calare (+7,9% dal settore elettrico, contro il -17% della Ue e il -8,6% negli Usa), non fa altro che installare nuove centrali a carbone (37 GW in costruzione nel 2023) e ha rimandato la neutralità climatica al 2060, invece che al 2050 come le altre potenze industriali.
La loro conclusione allora è: che serve darci da fare in Europa, se questo gigante è così indietro nel percorso di sostenibilità?
Tutto vero, ma se si considera anche il lato “buono”, la prospettiva cambia e di molto.
Nel 2023 la Cina ha installato oltre la metà di tutta la nuova potenza solare ed eolica del mondo; in particolare: il 50% di solare, il 60% di eolico onshore e il 70% di quello offshore.
Solamente di nuovi impianti fotovoltaici nel 2023 dovrebbe installarne 150 GW (più di tutti quelli esistenti in Europa), ed è la prima anche per nuova potenza nucleare e idroelettrica.
Inoltre in Cina si sta sperimentando su grande scala ogni genere di impianti di accumulo: dalle batterie all’aria compressa, dal pompaggio alle batterie a flusso, dall’idrogeno ai sistemi a gravità.
Questo sforzo senza eguali nel mondo ha portato la Cina a scendere sotto al 50% della potenza elettrica generata con combustibili fossili, tre anni prima del 2025.
Impressionante, anche se, per i noti motivi di fattore di capacità, questo vuol dire che il carbone copre ancora il 60% della produzione elettrica cinese, mentre rinnovabili+nucleare sono al 30%.
Troppo poco? Beh, siamo già quasi ai livelli percentuali italiani e, va ricordato che dieci anni fa il carbone copriva l’80% della produzione, mentre di rinnovabili c’era solo l’idroelettrico.
Il lato green del colosso cinese
Inoltre questi dati risalgono al 2022, e la notevolissima aggiunta di rinnovabili in corso cambierà ancora le carte in tavola, tanto che, secondo la norvegese Rystad Energy, la Cina potrebbe raggiungere il suo picco di emissioni addirittura quest’anno, invece che al 2030, calando poi del 10% (vuol dire 3 volte le emissioni annuali italiane) nei prossimi 7 anni.
E non c’è solo il settore dell’energia elettrica. Com’è noto la Cina domina il mercato delle batterie e non perché ce l’abbiano sottratto con l’inganno, ma perché ci hanno puntato forte anni fa, capendone con lungimiranza l’importanza, mentre noi ci trastullavamo con gli scandali per salvare il diesel…
Oggi sta applicando questa supremazia sul mercato dell’auto elettrica: nel 2022 la Cina ha prodotto 5,9 milioni di auto elettriche, contro i 4,3 del resto del mondo, e secondo la Iea dei 14 milioni di auto elettriche che verranno vendute nel mondo nel 2023, almeno 8 saranno acquistate in Cina.
Non sorprende così che il gigante asiatico si stia affacciando con prepotenza sul mercato europeo producendo ciò che la nostra industria finora sembra essere stata incapace di fare: auto a batteria piccole ed economiche, invece di Suv o grandi berline sproporzionate per prezzo e dimensioni.
Quanto sta accadendo ora, nel caso dell’auto elettrica da diversi anni si è visto in tutte le tecnologie per la transizione energetica: pannelli fotovoltaici e termici, inverter, batterie per lo storage e anche per le turbine eoliche, sempre più appannaggio cinese.
Tutto ciò preoccupa molto l’Europa che sta pensando di alzare muri protettivi a colpi di dazi sui prodotti cinesi, per salvare quel poco che resta dell’industria delle rinnovabili nel nostro continente e riportarne il più possibile qui da noi (gli Usa lo hanno già fatto con l’Inflation Reduction Act).
Ma, di nuovo, bisogna riconoscere che l’industria verde cinese, aiutata certamente anche da sovvenzioni statali e dumping ai danni delle industrie straniere, nasce grazie a una politica più lungimirante che ha visto in questo settore, poco presidiato dall’Occidente, un grande avvenire. Ci ha investito quando noi eravamo ancora impegnati a minimizzare e deridere le potenzialità delle fonti rinnovabili.
“La Cina con questo gigantesco investimento nelle tecnologie per la transizione energetica ha fatto a tutti un grande favore”, ha spiegato a New Scientist Philip Andrews-Speed, dell’Oxford Institute for Energy Studies. “Facendo crollare i prezzi di pannelli solari e turbine eoliche, e ha reso l’energia rinnovabile più economica di quella fossile in gran parte del mondo”.
Avessimo aspettato i tempi dei mercati di Europa e Usa, dove dominavano e dominano le lobby di combustibili fossili e dell’auto a petrolio, saremmo ancora a contare i MW, invece dei GW, di impianti a fonti rinnovabili installati annualmente.
Se dal 2013 la Cina ha speso centinaia di miliardi per infrastrutture per oil&gas e delle briciole per le rinnovabili, nel 2023 si è vista la vera svolta: 6 dei 12 miliardi di nuovi investimenti all’estero sono per impianti di energie rinnovabili.
Di fronte a questo quadro, viene però spontanea la domanda: ma perché la Cina continua a veder crescere le sue emissioni e, in parallelo al boom di rinnovabili, non cerca anche di disintossicarsi dal carbone?
La crescita delle emissioni, avverte un recente rapporto della società di consulenza energetica Ember, dipende in gran parte dalla siccità del 2022-23, che riducendo la produzione idroelettrica di quasi il 9%, ha aumentato il ricorso al carbone, proprio mentre forti ondate di calore incrementavano la domanda.
Inoltre, la Cina è il più grande produttore di cemento e acciaio del mondo, con una buona parte di questi prodotti esportati: decarbonizzare quelle due industrie, che in Cina da sole producono più emissioni dell’Unione Europea, è notoriamente complicato e richiederà decenni.
Il carbone cinese e la sua lobby
Quanto al carbone, la situazione è più complessa.
“Anche in Cina esistono le lobby, e quella dell’estrazione del carbone, spinta dal Partito nelle province carbonifere e dei costruttori di centrali, sono fra le più potenti del paese: basti considerare che ci sono in progetto impianti a carbone per 230 GW”, spiega su New Scientist Lauri Myllyvirta, del Centre for Research on Energy and Clean Air in Finlandia.
“Ma – aggiunge – si tratta di impianti che funzioneranno pochissimo in futuro, in media per il 50% del tempo, forse solo per compensare l’intermittenza delle rinnovabili, e che eviteranno di fallire perché anche il mercato dell’elettricità è controllato centralmente, non è regolato da domanda e offerta”.
Un’inefficienza di mercato tanto grave da aver portato, secondo una ricerca della John Hopkins University, la Cina a emettere inutilmente, fra il 2011 e il 2019, circa 3 miliardi di tonnellate di CO2 da carbone ogni anno, come se al mondo si fossero aggiunte le emissioni di una seconda India.
Finché la situazione del settore carbonifero resterà questa, è chiaro che l’immagine “verde” che la Cina meriterebbe per i suoi enormi sforzi sul campo, verrà pesantemente offuscata. E, si sa, anche nelle dittature più ferree mettere sotto controllo le lobby economiche più potenti è molto dura.
Il leader cinese Xi Jinping ha comunque promesso nel 2021 che nel 2025 il consumo di carbone in Cina toccherà il suo picco, per poi iniziare a calare.
Vedremo se sarà vero. Se questo si verificherà, almeno, la scusa di molti “è inutile che agiamo sulle politiche climatiche, quando la Cina appesta il mondo con il suo carbone”, perderà la sua forza narrativa.