Dinosauri al contrattacco: quelli del nucleare

Il nucleare non si dà per vinto e rilancia con i reattori modulari. Servirà un trattato internazionale di non proliferazione del nucleare civile così come delle fonti energetiche fossili.

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Chiamiamoli dinosauri, le potenti multinazionali dell’energia, per segnalarne il livello evolutivo e come segno di speranza: i dinosauri, primitivi ma potenti, si sono estinti e bisogna che anche questi si estinguano o si evolvano in altra specie, per evitare la nostra estinzione.

I dinosauri del Nucleare

Negli anni ’50 e ’60, la diffusione dell’energia nucleare sembrava inarrestabile.

Politici e industriali si aspettavano che sarebbe diventata «troppo a buon mercato per metterci un contatore». Il numero di centrali nucleari nel mondo continuò ad aumentare fino alla metà degli anni ’80, quando a causa della crescita dei sentimenti antinuclearisti, alimentata dagli incidenti di Three Mile Island (nel 1979) e di Chernobyl (nel 1986), subì un arresto.

Arresto della crescita che, tuttavia, non va attribuito solo agli effetti sull’opinione pubblica della tragedia di Chernobyl, ma anche (e forse soprattutto) allo sfaldamento dell’Unione Sovietica, culminato nella caduta del muro di Berlino. Fino a quel momento, infatti, nucleare civile e militare erano stati strettamente intrecciati per via della produzione, nelle centrali, di quel plutonio che serviva per fare le bombe atomiche.

Questo intreccio mascherava il costo reale del kWh nucleare. Venuta meno la necessità di espandere o mantenere il deterrente bombe, il nucleare civile si ritrova nudo come il re della favola di Andersen, e si scopre che il kWh prodotto da una nuova centrale è estremamente costoso, molto più di quello prodotto con le fonti fossili, e senza sussidi statali economicamente non regge.

Dunque, le nuove centrali in costruzione sono poche e fortemente sovvenzionate con fondi pubblici per mantenere in vita un’attività economica sostenuta da potenti lobby oppure per mettere sotto controllo Paesi in via di sviluppo, oppure per vanagloria di Paesi che si sono arricchiti grazie al petrolio oppure per tenere in piedi o accrescere il potenziale offensivo nucleare militare come nel caso di Pakistan, India, Israele e, sostengono gli USA, anche l’Iran; oppure ancora, ed è il caso della Cina, per acquisire padronanza di un sistema tecnologico che permette loro da una parte di attenuare la dipendenza dai combustibili fossili e dall’altra di proporlo a paesi in via di sviluppo ampliando l’influenza geopolitica; oltre che, naturalmente, per sostenere gli armamenti nucleari.

E mentre sono in costruzione alcune unità, altre intanto vanno in dismissione, perché giunte al limite di età, e altre, dopo il disastro di Fukushima nel 2011, sono fermate per volontà politica, sotto la pressione dell’opinione pubblica, com’è avvenuto in Giappone e in Germania.

Dopo Fukushima i dinosauri del nucleare sembrano rassegnati: le centrali non convengono economicamente, i tempi di costruzione e i costi si dilatano sempre più, l’opinione pubblica è sempre più avversa.

Si dibattono, resistono in tutti i modi, ma la loro esistenza è, nella migliore delle ipotesi, ridotta a una minima percentuale della produzione elettrica mondiale. Fine di un sogno di gloria.

Ecco che un’occasione insperata si affaccia all’orizzonte nel 2015: l’Accordo di Parigi sulla limitazione delle emissioni di CO2. Guarda caso, una centrale nucleare produce copiosamente kWh elettrici senza riversare un solo grammo di CO2 in atmosfera e può pure produrre idrogeno a zero emissioni, l’ideale per continuare la vita di sempre e fermare il riscaldamento globale.

La tecnologia è pronta e matura, e si presterebbe – tecnicamente – anche a entrare in simbiosi con le fonti rinnovabili non programmabili, perché le centrali nucleari possono modificare, sia pure con non grande prontezza, la potenza erogata sulla base della richiesta.

Il problema della poca prontezza si potrebbe risolvere facilmente con opportuni accumuli, ma questo aumenterebbe il costo d’investimento, che è già molto elevato.

Non è tanto questo il limite principale. Il fatto è che l’elevato costo capitale unito al basso costo del combustibile richiede, per una gestione economicamente conveniente, una produzione il più possibile continua alla massima potenza; per questo le centrali nucleari, anche se regolabili, di norma sono fatte funzionare “a tavoletta”, perché più kWh si producono in un anno, meno costa il kWh prodotto, poiché la parte predominate dei costi di produzione è fissa ed è costituita dall’ammortamento del capitale.

Usando una centrale con la funzione di produrre “kWh di soccorso” alle rinnovabili, quando occorrono, c’è il rischio – forse la certezza – che il kWh nucleare finisca per costare più del kWh prodotto dall’accoppiata centrale a metano + Ccs, quella promossa dai dinosauri dell’Oil&Gas.

E una centrale a gas + Ccs si costruisce in un tempo molto minore di quello necessario per costruire una centrale nucleare, che parte da una base di dieci anni e finisce per estendersi oltre. Troppo tempo, perché bisogna ristrutturare il sistema energetico da subito e raggiungere certi obiettivi stringenti entro il 2030.

Con questa tempistica, di là dai costi, l’opzione nucleare non è proponibile.

I dinosauri del nucleare sono testardi, e non si danno per vinti. Anzi tirano fuori dal cilindro una soluzione che ribalterebbe la situazione; gli Smr (Small Modular Reactors, Piccoli Reattori Modulari), che sono reattori di nuova generazione progettati per generare energia elettrica tipicamente fino a 300 MW, i cui componenti e sistemi possono essere prefabbricati e quindi trasportati come moduli ai siti per l’installazione, riducendo notevolmente i costi e i tempi di costruzione.

Per i dinosauri del nucleare gli Smr sono come i velociraptor di Jurassic Park, veloci, astuti, implacabili. Pronti, se è il caso, a misurarsi con i dinosauri dell’Oil&Gas.

Su questa strada si sono avviati con decisione e dovizia di finanziamenti in tanti: da Bill Gates che ha fondato la TerraPower assieme a GE Hitachi Nuclear Energy, con l’obiettivo di commercializzare un piccolo reattore in cui si usa sodio liquido come refrigerante, cioè come fluido che estrae il calore ad alta temperatura dal nocciolo del reattore e lo trasferisce a una caldaia in cui si produce il vapore che aziona le turbine che muovono il generatore di energia elettrica.

Il vantaggio di questa soluzione è che il sodio si può pure adoperare come accumulatore di calore, se una parte di quello che circola è contenuto in un opportuno serbatoio. In questo modo, attraverso l’accumulo, si garantisce la produzione variabile richiesta dalla complementarietà alle fonti rinnovabili non programmabili, lasciando invece che il reattore funzioni sempre a pieno regime, cioè con i costi di produzione minimi. L’obiettivo è di competere con una centrale turbogas + Ccs o con un mega impianto di batterie.

Non c’è solo TerraPower, negli USA. Ha già completato la fase finale dei test di sicurezza anche l’Smr della NuScale, un concorrente, costituito da moduli da 60 MW ciascuno, assemblabili fino a 12. In questo caso si tratta di un più convenzionale reattore ad acqua pressurizzata, quello dei sommergibili nucleari, per intenderci, e si gioca la variabilità della produzione attivando o disattivando via via i singoli moduli, ciascuno dei quali va sempre a piena potenza.

In Europa è entrata in campo la Rolls-Royce, con Smr da 440 MW, un po’ più grandi quindi di quelli americani, con l’obiettivo di rendere realmente raggiungibile l’impegno britannico di essere a emissioni zero nel 2050, ponendosi come obiettivo quello di costruirne 16, coprendo così circa il 20% della domanda di energia elettrica del paese.

Spostandosi ancora verso est incontriamo la Russia, pure molto attiva nel campo degli Smr e anche più avanti degli altri. Già nel 2019 è stato connesso in rete l’Smr galleggiante Akademik Lomonosov da 70 MW. È il primo di una serie che serve ad alimentare nuovi insediamenti produttivi lungo le sconfinate coste della Siberia.

Non resta indietro in questa corsa la Cina, ovviamente, dove è prevista l’inaugurazione di un Smr da 200 MW.

Naturalmente, i problemi irrisolti relativi alla sicurezza (non si capisce perché se sono più piccoli dovrebbero essere più sicuri) e alla collocazione delle scorie rimangono tali e quali.

Anche qui l’idea fondamentale è di metterle sottoterra. Sembra proprio che i dinosauri dell’energia abbiano deciso che il solo modo per essere sostenibili sia quello di sotterrare i loro escrementi, come i gatti.

Per non finire estinti come i dinosauri

Ci si potrebbe chiedere: ma perché mai dovremmo opporci ai dinosauri? In fondo ci propongono soluzioni che convengono a loro, ma vanno nella direzione di stabilizzare il clima.

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un esame più attento e distinguere fra i dinosauri dell’Oil&Gas e quelli del nucleare.

Cominciamo con l’esaminare i progetti dei dinosauri dell’Oil&Gas.

La cosa ci riguarda particolarmente da vicino perché uno di questi dinosauri, l’Eni, è di casa nostra, e noi cittadini italiani siamo fra gli azionisti.

Ciò che non va è che la cattura del carbonio sia usata come un cavallo di Troia per mantenere viva la domanda di combustibili fossili e avversare quella che dovrebbe essere l’anima della transizione ecologica: l’integrazione della tecnosfera, cioè la società umana con le sue tecnologie, nella biosfera, per garantire la sopravvivenza dell’umanità nel lungo periodo.

Ciò si può ottenere solo se la tecnosfera impara a mimare il funzionamento della biosfera, che è fatta dall’insieme di diversi tipi di ecosistemi distribuiti sulla superficie terrestre e marina, così come la tecnosfera è fatta da tanti tecnosistemi pure loro distribuiti sulla superficie terrestre.

Ebbene, il funzionamento degli ecosistemi si basa sui cicli: non esiste il rifiuto, tutto è adoperato e riadoperato ciclicamente grazie all’energia fornita dal Sole. Inoltre, nessuna risorsa è usata a una velocità superiore alla sua velocità di rigenerazione.

Non c’è niente che sia estratto indefinitamente e non c’è niente che sia tolto di mezzo definitivamente.

Con un’eccezione irripetibile: la CO2 prelevata dall’atmosfera milioni di anni fa, accumulata sotto forma di biomassa e sprofondata sotto strati di detriti inorganici. È quella biomassa che si è poi trasformata in carbone, petrolio e gas. Ma il processo è stato lentissimo, nell’arco di centinaia di migliaia di anni, e gli ecosistemi hanno avuto il tempo di adattarsi.

Dunque, estrarre fino all’ultima goccia gli idrocarburi e sotterrare, non mettere in ciclo, la CO2 che deriva dalla loro utilizzazione è in contrasto con i principi che hanno permesso agli ecosistemi e alla biosfera tutta di svilupparsi e mantenersi fino a oggi e per questo è un approccio perdente, non in linea con la transizione ecologica; e il peso della sconfitta dovrà caricarselo chi verrà dopo di noi.

Del resto, basti pensare al fatto che i luoghi idonei al contenimento sotterraneo della CO2 in condizioni di relativa sicurezza sono limitati in numero e dimensione e quindi, alla fine – chi dice cento, chi dice 400 anni – non avremo più dove metterla. E allora, cosa faranno i nostri discendenti?

E intanto le riserve di idrocarburi si saranno spremute fino in fondo e, poiché poco sarà stato fatto per mettersi nelle condizioni di dipendere solo dalle fonti rinnovabili e per attuare i princìpi dell’economia circolare, non ci sarà abbastanza energia per sostenere il tecnosistema e l’ecosistema si sarà totalmente degradato, con le facilmente immaginabili conseguenze sociali ed economiche.

Questo è il risultato di non effettuare la transizione ecologica.

Insomma, non si sfugge alle leggi della natura, che poi sono le leggi della fisica. Sono questi i temi su cui dobbiamo giocarci nella la lotta contro i dinosauri dell’energia, spalleggiati da una finanza che ama i grandi progetti, quelli tanto grandi che non possono fallire, per loro, perché tanto – come si è visto ampiamente in passato – alla fine a pagare siamo noi.

Questa volta la posta in gioco è l’umanità intera, e a rimanere travolti non saremo solo noi, ma anche e forse soprattutto, proprio loro, i dinosauri dell’energia, com’è già successo ai loro progenitori simbolici 60 milioni di anni fa, a causa del meteorite. Guarda caso, fra i pochi sopravvissuti in quell’occasione c’erano i nostri progenitori, i primi mammiferi. E questo ci deve dare fiducia.

Il Trattato di non proliferazione

Quali strumenti abbiamo a disposizione per combattere efficacemente i dinosauri dell’energia? Come rendere operativo l’Accordo di Parigi, sistematicamente eluso principalmente a causa della pressione esercitata dai dinosauri dell’Oil&Gas?

La situazione che ci troviamo a fronteggiare, non dimentichiamolo, è di estrema gravità e il pericolo ultimo del cambiamento climatico e del degrado ambientale è la sesta estinzione, ci ripete continuamente la comunità scientifica.

Ma non eravamo pure sull’orlo di un’estinzione di massa quando i due blocchi, quello capitalista e quello comunista si fronteggiavano brandendo centinaia, forse migliaia di ordigni nucleari che avrebbero raso al suolo la superficie terrestre eliminando ogni forma di vita?

E che cosa si fece allora, per scongiurare– o almeno rendere meno probabile – questo evento catastrofico? Si mise in atto un trattato di non proliferazione delle armi nucleari.

Ebbene, quali sono le armi che minacciano oggi la nostra sopravvivenza oltre a quelle nucleari? Non c’è dubbio che siano il gas metano, il petrolio e il carbone, il cui uso è la causa principale del cambiamento climatico. Occorre dunque mettere in atto, com’è stato proposto, un trattato internazionale di non proliferazione delle fonti energetiche fossili.

Procedendo in analogia al trattato di non proliferazione delle armi nucleari, bisogna creare le condizioni per il disarmo, ovvero prevenire la proliferazione di carbone, petrolio e gas ponendo fine immediata a tutte le nuove esplorazioni e produzioni.

I giacimenti di petrolio e gas e le miniere di carbone in corso di sfruttamento contengono già abbastanza carbonio da spingere il mondo ben oltre i limiti di temperatura dell’Accordo di Parigi. L’eliminazione graduale della produzione di combustibili fossili deve iniziare regolando l’approvvigionamento di combustibili fossili, limitando l’estrazione, rimuovendo i sussidi per la produzione.

Proprio come cinquant’anni fa il mondo aveva bisogno di un trattato per disinnescare le minacce rappresentate dalle armi di distruzione di massa, il mondo oggi ha bisogno di un Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili per disinnescare le minacce della sesta estinzione di massa, quella dell’Antropocene.

E anche l’attuale trattato di non proliferazione delle armi nucleari andrebbe aggiornato, mettendo al bando pure il nucleare civile che, a parte i pericoli noti di cui si è detto, costituisce fonte di approvvigionamento di materiale fissile, utile per la costruzione delle armi. E in più la proliferazione di piccoli reattori aumenta esponenzialmente la possibilità di attuazione di atti terroristici con strumenti letali, la portata del cui danno è incontrollabile.

L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2021 della rivista bimestrale QualEnergia

La prima parte dell’analisi di Federico Butera: Dinosauri al contrattacco: quelli dell’oil&gas

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