Cina, rinnovabili ed emissioni zero: la sfida colossale

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L'attuale impetuosa crescita delle rinnovabili in Cina non è sufficiente per raggiungere la neutralità carbonica al 2060. Lo sforzo sarà “mostruoso” ed è descritto da uno studio pubblicato su Nature.

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Nella letteratura e nel cinema la Cina è spesso dipinta come un paese misterioso, indecifrabile quanto la sua scrittura ideografica.

Il mistero si sta riproponendo anche per quanto riguarda le sue politiche climatiche e quindi per le sue strategie di transizione energetica. Ciò è preoccupante, essendo il paese maggior emettitore di CO2, con 14 miliardi di tonnellate l’anno (il secondo, gli Usa si ferma a 6,5, ma anche con un quarto della popolazione cinese).

Firmataria convinta dell’Accordo di Parigi del 2015, e quindi impegnatasi come il resto del mondo ad azzerare le sue emissioni, la Cina ha però anche annunciato che non intende mantenere l’impegno al 2050, come gran parte delle altre nazioni, rimandandolo al 2060, e continuando intanto a installare centrali a carbone (spesso però in sostituzione di altre più vecchie e inefficienti): 85 GW nel 2022, contro i 40 GW del 2021.

Come indica Climate Action Tracker, gli Usa dal 2008 sono passati da 7,5 mld tCO2 a 6,5 annue, mentre la Cina è cresciuta nello stesso periodo da 11 a 14 mld tCO2 annue, e le sue attuali politiche prevedono non un calo, ma una stabilizzazione delle emissioni fino al 2030.

Del resto, il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente dichiarato che la Cina smetterà di emettere CO2 solo quando avrà pronto un sistema a fonti rinnovabili che potrà sostituire con la massima sicurezza quello l’attuale basato sulle energie fossili.

Ma parlando di Cina, le questioni non sono così semplici, tutte bianche o nere.

Mentre il paese sembra trascinare i piedi nella riduzione delle emissioni, è anche vero che nessuna nazione al mondo installa tante rinnovabili, sperimenta più sistemi di accumulo innovativi o ha fatto crescere l’industria di turbine eoliche, pannelli FV,  auto elettriche e batterie quanto il colosso asiatico.

Per capire di quali cifre stiamo parlando, basti considerare che nei soli primi quattro mesi del 2023 il paese ha installato 50 GW di fotovoltaico, più di quanto la Germania ne abbia installato in 20 anni, e 14 GW di eolico, più di tutto l’eolico italiano.

Tutte le fonti elettriche cinesi senza CO2 hanno raggiunto adesso i 1.330 GW, superando l’obbiettivo, fissato per il 2025, di coprire più della metà della potenza del parco generativo: di questi GW un terzo sono costituiti da solare, un terzo da idroelettrico, un 28% da eolico e un 4% da nucleare.

Con questa avanzata travolgente, la Cina ha ridotto la quota del carbone nella produzione elettrica dal 70% di qualche anno fa al 56%, mentre il 26% oggi arriva da rinnovabili e nucleare.

Nel 2021, dei 16 milioni di auto elettriche o ibride plug-in in giro per il mondo, la metà, 8 milioni, erano in Cina (erano 4,5 milioni del 2020), contro i 5,5 in Europa, e 1,3 negli Stati Uniti.

Basterà questa crescita impetuosa delle tecnologie green per azzerare le emissioni al 2060 e dare una qualche chance al mondo di salvarsi dalla catastrofe climatica?

Secondo un articolo pubblicato su Nature (vedi link in fondo all’articolo) da un vasto gruppo di ricercatori cinesi e spagnoli diretti da Rong Wang, fisico dell’atmosfera della Fudan University di Shanghai, lo sforzo cinese non è sufficiente, ma potrebbe diventarlo con una ulteriore, fortissima accelerazione.

“Il processo di decarbonizzazione può essere più difficile nei Paesi in via di sviluppo (la Cina ancora si considera tale, ndr), che hanno da soddisfare i bisogni di base di parte della popolazione. Ma è indispensabile che lo si completi, visto che il mio paese con il 18% della popolazione mondiale, emette il 28% delle emissioni globali di CO2”, ricorda Wang.

Sui mezzi per raggiungere questo obbiettivo i ricercatori hanno pochi dubbi.

“Gli impianti fotovoltaici ed eolici hanno una velocità e un’ampiezza geografica di installazione molto più ampia rispetto all’idroelettrico e al nucleare; generano effetti meno dannosi sugli alimenti e sugli ecosistemi rispetto alla bioenergia. E probabilmente resteranno competitivi anche in futuro rispetto alla cattura e allo stoccaggio del carbonio”, dice il ricercatore cinese.

Ma anche con sole e vento la sfida per arrivare alla neutralizzazione delle emissioni al 2060 sarà durissima.

“Basti pensare – ammette Wang – che oggi queste due fonti producono circa 1000 TWh l’anno in Cina (3 volte tutta la produzione elettrica italiana, ndr), ma bisogna che al 2060 raggiungano una produzione fra i 10.000 e i 15.000 TWh; tuttavia, continuando con l’attuale tasso di crescita al 2060 avremmo solo 5.000 TWh per quella data, e con la crescita più veloce prevista dai piani governativi, forse raggiungeremmo i 9.500 TWh”.

“Queste stime – spiega Wang – si potrebbero persino rivelare ottimistiche, in caso in futuro ci fosse un calo nel supporto dell’industria delle rinnovabili, oppure se non si risolvessero i problemi del trasporto dell’elettricità con linee ad altissima tensione dai punti di produzione, spesso molto remoti rispetto alle città e ai centri di consumo, e del suo stoccaggio”.

Per capire come si possa completare questa gigantesca transizione energetica, gli autori hanno allora realizzato un complesso modello informatico che mette insieme molte variabili, dalla posizione ottimale dei nuovi impianti fotovoltaici ed eolici ai loro tempi di costruzione, dalla realizzazione delle linee di trasmissione ai progressi della tecnologia dello storage, dal tasso di apprendimento del personale tecnico a costi e investimenti necessari.

“I risultati mostrano come la Cina potrebbe raggiungere la produzione di 15.000 TWh da fonti rinnovabili, e quindi la neutralità delle emissioni di CO2 al 2060, installando 3.844 nuovi impianti FV ed eolici di taglia superiore ai 10 MW, con un adeguato parallelo supporto da parte di nuove linee di trasmissione ad alta tensione per una potenza di 6.400 GW (il nuovo Thyrrenian Link di Terna, è da 1 GW, ndr), e impianti di storage, soprattutto pompaggio idroelettrico, per una potenza di 1.100 GW (oggi l’Italia ne ha per 8 GW, ndr)”, dice il fisico di Shangai.

L’area di terra, soprattutto deserti, e di oceano occupata da questi impianti sarebbe gigantesca: 585.000 kmq per il FV e 672.000 kmq per l’eolico, come dire 4 volte la superficie italiana, in un paese che ha una superficie di terraferma di quasi 10 milioni di kmq.

Lo sforzo finanziario sarebbe altrettanto gigantesco: se oggi la Cina investe 77 miliardi di dollari l’anno in rinnovabili, dovrebbe passare a 127 mld $/anno da ora al 2050 e in seguito a ben 426 mld $ fino al 2060, pari al 7% del Pil nazionale.

Può reggere il paese asiatico a un simile sforzo? La risposta di Wang è affermativa e la spiega così: “sì, perché sarebbe compensato da benefici collaterali, come la diminuzione delle importazioni di fossili, il minor peso sull’economia della carbon tax interna e di quelle esterne sull’import cinese, il calo dell’inquinamento da carbone e, quindi, minori spese per i danni che esso provoca o l’aumento di reddito degli abitanti delle regioni più povere, quelle in cui l’economica elettricità solare verrebbe distribuita su larga scala”.

“Se si scelgono bene i momenti in cui implementare i vari step di sviluppo delle strategie nazionali per l’energia pulita, approfittando delle prevedibili innovazioni tecnologiche, i costi economici possono essere ridotti rispetto alle nostre previsioni”, conclude Rong Wang.

Va poi considerato il fatto che le strategie seguite nel complesso territorio cinese e su una così enorme scala, si potranno poi replicare in altri paesi in via di sviluppo, come quelli africani o mediorientali, semplificando e rendendo più economica la transizione energetica anche in casi che oggi appaiono molto difficili da affrontare.

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