Il nuovo decreto rinnovabili e la storia degli incentivi in Italia

Gli incentivi alle rinnovabili in Italia: un patchwork più costoso del necessario e poco efficiente che si sarebbe potuto evitare. Mentre si discute della nuova bozza di decreto con gli incentivi alle FER elettriche, ripercorriamo la storia degli aiuti alle energie pulite in Italia grazie ad un estratto dal nuovo libro di G.B. Zorzoli.

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Se la nuova bozza in circolazione si tradurrà in un decreto operativo, cosa molto probabile ma ancora non certa, le rinnovabili elettriche italiane, fotovoltaico compreso, si troveranno presto a essere gestite con nuovi meccanismi incentivanti.

Ma come si è arrivati fin qui? Diamo uno sguardo alla storia recente degli incentivi con un estratto, pubblicato con il consenso dell’autore e dell’editore, del nuovo libro di G.B. Zorzoli, Quale mercato elettrico? Storia, tecnologia e liberalizzazione del settore elettrico da AIEE (libri Collana AIEE).

In Italia sulle rinnovabili si è intervenuti con una molteplicità di provvedimenti, che facevano riferimento a meccanismi di incentivazione fra loro radicalmente diversi, per di più presi non contemporaneamente e con aggiustamenti successivi, talora radicali, altre volte contraddittori.

Ne è sortito un patchwork più costoso del necessario e poco efficiente. Un esito evitabile, come confermano l’analisi comparata dei diversi meccanismi di incentivazione e l’evidenza empirica delle scelte effettuate in altri paesi europei.

Il primo intervento legislativo per realizzare gli obiettivi del protocollo di Kyoto si trova nel Decreto che avvia la liberalizzazione del mercato elettrico italiano, quindi solo nel 1999.

Per produttori e importatori di energia elettrica da fonti non rinnovabili, il Decreto introduceva l’obbligo di immettere ogni anno in rete una percentuale di energia rinnovabile, pari nel 2002 al 2%; percentuale incrementabile nel tempo, in modo da rispettare gli impegni previsti dal protocollo di Kyoto.

L’obbligo poteva essere adempiuto anche mediante acquisto delle relative quote da terzi, dando quindi vita a un mercato dei cosiddetti Certificati Verdi (CV).

A differenza del meccanismo tedesco, che prevedeva tariffe incentivanti differenziate per tecnologia, secondo il loro livello di maturità, nella versione iniziale i CV erano tecnologicamente neutrali, per cui resero tendenzialmente rimunerativi gli investimenti in impianti eolici, geotermici, mini-idro (per gli ultimi due soprattutto nel caso di rifacimenti) e, con limitazioni talvolta notevoli, in quelli alimentati da biomasse, mentre il fotovoltaico ne era di fatto escluso.

Inoltre, come per gli ETS, dopo una fase iniziale con scarsità di offerta, che fece salire il prezzo dei CV, si passò rapidamente a un eccesso di offerta di titoli sul mercato, che continuò ad aumentare, nonostante il graduale incremento della quota d’obbligo fino a valori intorno al 7%.

Invece di risolvere il problema alla radice, la vigenza dei CV fu prima portata a dodici anni, poi a quindici e, per gli impianti di potenza superiore a 1 MW, i valori dei CV furono diversificati mediante appositi coefficienti moltiplicativi, di valore differente a seconda della tecnologia utilizzata, mentre per quelli inferiori a 1 MW (200 kW per gli eolici) in alternativa ai CV si poteva optare per tariffe onnicomprensive, differenziate per tecnologia, corrispondenti alle feed-in tariff tedesche.

Con queste e altre misure, su cui per brevità si sorvola, alla fine dei CV restò soltanto il nome, non la sostanza. Pur essendo evidente che il meccanismo dei CV non era in grado di promuovere l’installazione di impianti fotovoltaici, in Italia si è atteso fino al 2005 per approvare il primo “conto energia”, caratterizzato da un sistema di incentivazione che nel lessico internazionale è denominato feed-in premium: per ogni kWh prodotto si riconosce una tariffa, variabile secondo la taglia e la collocazione dell’impianto, la quale si somma al prezzo ricavato dall’energia elettrica prodotta.

Per un determinato impianto la tariffa, di durata ventennale, rimane uguale a quella riconosciuta al momento della sua entrata in esercizio. Il Primo conto energia conteneva norme che diedero adito a manovre speculative, di fatto ritardando la realizzazione degli impianti, tanto che si dovette sostituirlo nel 2007 con il Secondo conto energia, che conteneva due clausole, in grado, sulla carta, di razionalizzare il percorso di crescita del fotovoltaico.

Per evitare un eccessivo squilibrio a favore della realizzazione di grandi impianti installati a terra, furono stabilite tariffe particolarmente incentivanti per la completa integrazione degli impianti nelle strutture edilizie. Fu inoltre disciplinata la riduzione progressiva delle tariffe fino al 2010, ultimo anno di vigenza del Secondo conto energia.

Tuttavia, mentre la normativa tedesca prevedeva che, automaticamente, le tariffe diminuissero una volta raggiunta una data potenza installata (e ciò nonostante non riuscì a ridurle con la rapidità richiesta dal drastico calo dei costi del fotovoltaico), l’andamento al ribasso italiano, prefissato in modo rigido, dopo il primo anno garantì incentivi molto premianti.

Oltre tutto, a peggiorare non poco la situazione contribuì la legge 129/2010, nota come decreto “salva Alcoa”: il Parlamento introdusse un improvvido emendamento, che prorogava l’accesso alle tariffe del Secondo conto energia a tutti gli impianti la cui costruzione fosse conclusa entro il 31 dicembre 2010 e che fossero entrati in esercizio entro il 30 giugno 2011.

Oltre a determinare un boom di realizzazioni, con un notevole incremento del monte incentivi, e a sollevare parecchi dubbi sull’effettivo completamento entro il 2010 di tutti gli impianti ammessi ai benefici del decreto salva Alcoa, il provvedimento creò un’assurda sperequazione fra questi ultimi e gli impianti terminati nel 2011 (quindi soggetti alle tariffe minori del Terzo conto energia, entrato in vigore dall’inizio dell’anno) e che, come è avvenuto, hanno incominciato a produrre energia prima di impianti rientranti nel decreto salva Alcoa.

Così il Terzo conto energia ebbe vita breve, certamente travolto dalle polemiche sul decreto “salva Alcoa”, ma ancora di più dalla constatazione che i costi degli impianti fotovoltaici stavano scendendo più rapidamente di quanto ipotizzato nel fissarne le tariffe.

Così, a partire dal 1 giugno 2011 fu sostituito dal Quarto conto energia, a sua volta rimpiazzato dal Quinto un anno dopo (luglio 2012), la cui applicazione doveva cessare «decorsi trenta giorni solari dalla data di raggiungimento di un costo indicativo cumulato di 6,7 miliardi di euro l’anno» per gli incentivi al fotovoltaico15. Questo tetto è stato raggiunto il 6 giugno 2013.

Il D.M. 6 luglio 2012, uscito con ritardo, riformulò i criteri di incentivazione delle rinnovabili elettriche non fotovoltaiche. A partire dal 2013 gli impianti di piccola potenza (differente per tecnologia) furono incentivati con tariffe onnicomprensive.

Gli altri, con un incentivo pari alla differenza tra una tariffa di riferimento e il prezzo zonale orario dell’energia, assegnato mediante aste al ribasso con contingenti prefissati per ogni tecnologia16. Per gli impianti incentivati dai CV, era previsto il loro graduale esaurimento a fine 2014, sostituito da un sistema a tariffa.

Venne inoltre introdotto un tetto per gli incentivi pari a 5,8 miliardi di euro, che ha fortemente ridotto la crescita delle rinnovabili. Ulteriori limitazioni sono derivate dal ritardo (23 giugno 2016), con cui è uscito il successivo decreto, che doveva normare le incentivazioni a partire da gennaio 2015.

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