Serve un nuovo management per Eni, ancora troppo concentrata sugli idrocarburi

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A chiederlo è Greenpeace Italia, che contesta i recenti piani aziendali a breve e medio termine del "cane a sei zampe". Su Eni molte critiche anche per il suo greenwashing e per l'elusione fiscale.

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Da diversi anni molti attori del settore delle rinnovabili e del mondo dell’ambientalismo stanno chiedendo alla partecipata statale Eni di intraprendere un vero processo di decarbonizzazione.

Lo chiede, e non è neanche la prima volta, Greenpeace Italia, alla vigilia, anche se non sappiamo quanto prossima, della decisione governativa sul management che guiderà l’azienda nei prossimi anni.

Per l’associazione ambientalista il “Piano strategico di lungo termine al 2050” e il “Piano d’azione 2020-2023” (vedi QualEnergia.it), presentati dall’azienda sono “assolutamente incompatibili con qualsiasi tentativo plausibile di rispettare gli accordi di Parigi”.

“La tanto sbandierata svolta verde di Eni è solo fumo negli occhi, come dimostra quanto presentato dalla stessa azienda solo poche settimane fa, ovvero due piani che non tengono assolutamente conto delle indicazioni della scienza”, commenta Luca Iacoboni, responsabile campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.

“Se l’azienda vuole davvero fare la propria parte per evitare l’aggravarsi dell’emergenza climatica, deve mettere le energie rinnovabili al centro del proprio piano, e non continuare a prevedere un aumento della produzione di idrocarburi, puntando tutto su strumenti vaghi e ancora poco affidabili per compensare le proprie emissioni”.

Infatti, secondo quanto programmato da Eni, nei prossimi 6 anni la produzione di idrocarburi (petrolio e gas) aumenterà in media del 3,5% all’anno.

Gli investimenti previsti da Eni nel nuovo piano 2020-2023 sulle rinnovabili ammontano invece a 2,6 miliardi di euro, ovvero poco più di un decimo di quanto l’azienda ha scelto di investire, nei prossimi quattro anni, in attività di esplorazione ed estrazione di petrolio e gas (cioè 24 miliardi di euro).

Eni, spiega l’associazione, non ha inoltre indicato quali siano gli obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2025, ma si suppone che esse aumenteranno, alla luce dell’incremento previsto della produzione.

“Per la comunità scientifica abbiamo circa dieci anni per limitare le conseguenze della crisi climatica in corso. Ebbene, anziché agire in tal senso, Eni vorrebbe usare sei di questi dieci anni addirittura per aumentare la propria produzione di petrolio e gas”, continua Iacoboni.

Dubbi poi ci sono sulle soluzioni che Eni propone per compensare le proprie emissioni, dato che non sono stati forniti dettagli sui piani di conservazione delle foreste e riforestazione (REDD+). Inoltre, la tecnologia di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS) su cui l’azienda punta “è ancora non affidabile, costosa e non dà garanzie in fatto di sicurezza ambientale”, afferma Greenpeace.

Poco inciderà poi la recente revisione degli investimenti per i prossimi 18-24 mesi fatti dal “cane a sei zampe” a causa dell’emergenza coronavirus.

Greenpeace ritiene quindi fondamentale la presenza all’interno del nuovo management di competenze legate al mondo della decarbonizzazione e della transizione energetica.

Come abbiamo scritto spesso su QualEnergia.it, da qualche anno siamo abbastanza abituati a evidenziare una stretta connessione tra greenwashing e attività della partecipata statale.

Un esempio è l’aggressiva campagna pubblicitaria sul “biodiesel” definito sostenibile, ma che è poi un diesel a base di olio di palma considerato anche più impattante per il clima del gasolio fossile, a causa delle emissioni legate al cambio di uso del suolo dei terreni riconvertiti per la coltivazione intensiva di palma da olio. La pubblicità è stata segnalata come “pratica commerciale ingannevole”.

Stride poi l’impegno sugli idrocarburi dell’azienda e la sua attività per la riqualificazione energetica in edilizia, gestita comunque da una posizione estremamente dominante sul mercato, al momento sotto osservazione da parte dell’Antitrust.

In questa fase molto critica per il paese c’è inoltre da rilevare che Eni riesce a sottrarre molto denaro al fisco italiano grazie al fatto che una importante holding del gruppo ha sede legale in un paradiso fiscale come i Paesi Bassi.

Come molti sanno le azioni di Eni sono per il 30,1% di proprietà statale (circa 4,3% di proprietà del Ministero dell’Economia e Finanze e per circa il 25,7% di Cassa Depositi e Prestiti) e riuscire ad eludere una parte delle tasse è un fatto, a nostro parere, da stigmatizzare soprattutto per una partecipata.

Come ricorda bene Valori.it, ad Amsterdam ha sede Eni International BV, una holding, di fatto olandese, fondata nel 1994, che controlla decine di società del gruppo, con notevole vantaggi per chi detiene le sue quote azionarie, che sono tante soprattutto quelle di proprietà di soggetti esteri.

A dire il vero nel settore energetico in questo è in “buona compagnia”. In Olanda hanno infatti sede anche Enel Finance International NV, la sussidiaria di Enel Spa che gestisce i servizi finanziari del gruppo e Saipem International BV che controlla più di trenta società del suo gruppo.

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