Eni è un problema per il clima, punta ad espandere il business fossile, fa greenwashing con minime azioni “sostenibili”, ha una posizione di dominio in ogni mercato energetico, condiziona le politiche dei governi nazionali, va cambiato il suo vertice.
Queste sono alcune delle diverse accuse al Cane a sei zampe che il mondo ambientalista ripropone da anni.
Ad esempio, ieri mattina, 28 novembre, a Roma alcuni attivisti di Fridays for Future, supportati da Greenpeace, si sono incatenati davanti a uno degli ingressi del Palazzo Eni, per protestare proprio contro i piani di espansione della multinazionale nella ricerca e nello sfruttamento di petrolio e gas.
L’azione di protesta ha messo anche in luce le numerose operazioni di greenwashing su cui Eni punta per dare di sé un’immagine pulita.
E intanto proprio ieri presso il tribunale di Milano si stava per svolgere una nuova udienza del processo per corruzione internazionale in cui Eni è accusata di aver pagato una tangente da 1,1 miliardi di dollari, per l’acquisizione di un giacimento petrolifero in Nigeria.
Eni è una delle trenta aziende più inquinanti del Pianeta per emissioni di gas serra, attiva in 67 paesi.
Attualmente produce circa 2 milioni di barili di idrocarburi al giorno e la metà di questi sono in Africa, dove è il primo produttore internazionale.
Nel 2018, infatti, proprio quando si faceva più impellente un’azione contro la crisi climatica, Eni stabilisce un nuovo record di produzione: 1,9 milioni di barili/giorno, la più alta mai registrata dalla compagnia, facendo registrare un incremento del 5% nella produzione rispetto al 2017 e incrementando, nell’ultimo anno, il portafoglio di titoli minerari attraverso l’acquisizione di nuovi 29.300 kmq di titoli esplorativi tra Messico, Libano, Alaska, Indonesia e Marocco.
Insomma, la strategia dell’azienda per il prossimo quadriennio è di espandere ulteriormente il proprio business fossile, perforando 40 nuovi pozzi ogni anno.
Nel piano 2018-2021 Eni ha poi previsto investimenti nelle fonti rinnovabili per 1,2 miliardi di euro. Sembrerebbe una bella cifra, ma si tratta solo del 4% del totale dei nuovi investimenti. Sulle attività fossili di Eni ricordiamo anche un dossier di Legambiente dal titolo “Enemy of the planet”
Inoltre, secondo Greenpeace e Fridays For Future per far passare in secondo piano il proprio impatto negativo, Eni continua a mettere in campo costose e controverse attività di greenwashing.
Oltre alla recente acquisizione di Evolvere, sotto i riflettori dell’Antitrust, al suo impegno nella riqualificazione edilizia, favorito peraltro da un posizione di mercato dominante, ai controversi tentativi di fare conservazione di risorse forestali, la società sta promuovendo in modo piuttosto aggressivo un “biodiesel” che definisce sostenibile.
Ma è un diesel a base di olio di palma che si ritiene invece anche più pericoloso per il clima del gasolio di origine fossile, a causa delle emissioni legate al cambio di uso del suolo dei terreni riconvertiti per la coltivazione intensiva di palma da olio. La pubblicità è stata segnalata come “pratica commerciale ingannevole”.
Gli attivisti hanno voluto sottolineare che “malgrado dovrebbe essere la politica a dover pretendere dalle grandi aziende un sistema di produzione energetica che sia etico, rispettoso della vita e dei territori, troppe volte sono grandi multinazionali come Eni a influenzare pesantemente le scelte di governi deboli e accondiscendenti”.
In Italia, ad esempio, il Piano Nazionale per l’Energia e il Clima (PNIEC), presentato dall’esecutivo precedente e confermato dall’attuale, punta su una importante crescita del gas e sembrerebbe essere stato fortemente ispirato proprio da Eni.
“Nonostante sia azionista di Eni, e non viceversa, il governo italiano continua a subire l’influenza di questo gigante del petrolio e del gas, invece di puntare a piani concreti per arrivare a un Paese a emissioni zero”, dicono gli attivisti ambientalisti.
Le associazioni ambientaliste chiedono a questo governo di avviare al più presto un piano di riconversione delle attività di Eni, orientato verso le rinnovabili.
Insomma, un’altra gatta da pelare per l’esecutivo, che come i precedenti non sembra interessarsi più di tanto a modificare la governance di questa azienda partecipata statale per il 30,1%.
Mentre il 55% delle azioni appartiene a investitori esteri, gli azionisti di controllo sono invece dello Stato: per il 4,34% il Ministero Economia e Finanza e per il 25,76% la Cassa Depositi e Prestiti SpA (a sua volta partecipata statale). E qui c’è il motivo di tanta sudditanza verso il Cane a sei zampe.