Stufe a legna e a pellet e caminetti, insieme al traffico locale, sono i maggiori responsabili dell’inquinamento atmosferico.
In particolare, questa fonte ha un peso determinante nella stagione fredda, in cui diventa il principale responsabile dello sforamento della soglie limite di particolato in aria. Il contributo percentuale della combustione delle biomasse legnose alla massa di Pm10 in atmosfera in quei giorni raggiunge anche il 60% e circa il 40% nel caso del Pm2,5.
Se poi guardiamo al Pm 10 primario (cioè a quello tutto quello emesso e non solo a quello che si accumula in atmosfera), vediamo che il 70% viene dal riscaldamento domestico e di questo più del 99% dalla combustione di legna.
Come dopo ogni periodo invernale di alta pressione, la legna torna sotto accusa per il suo ruolo nell’inquinamento atmosferico urbano, fenomeno che, oltre a provocare (secondo le stime di Oms e EEA) circa 84mila morti premature all’anno in Italia, rischia di far pagare al nostro paese (insieme a Germania, Francia, Spagna e UK) pesanti sanzioni per il mancato rispetto delle direttive Ue.
I dati che riportavamo sopra, riferiti alla situazione della Toscana, arrivano dall’Arpat, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ma riecheggiano quanto già diverse ricerche hanno rilevato.
A livello nazionale, un rapporto Enea del 2015 anni fa ad esempio ha rivelato che il 56% dell’inquinamento totale da Pm 2,5 – le particelle solide più pericolose per la salute, i cui limiti dell’Oms risultano rispettati solo nel 6% delle stazioni di rilevamento in Italia – è dovuto a impianti a pellet e a legna, con il resto a carico di traffico e industria.
Uno studio dello stesso anno dell’Arpa Emilia Romagna, ha invece stimato che in quella regione il 45% dell’ossido di carbonio, il 29% composti organici e il 39% dei Pm10 in aria derivano dalla combustione di legna, contro, ad esempio, il 39, 13 e 24% rispettivamente, causati dal traffico.
I dati dunque non lasciano dubbi sul fatto che legna e pellet siano pessimi per la qualità dell’aria.
Le biomasse d’altra parte sono la fonte rinnovabile che più contribuisce al mix energetico italiano. Nel 2017 hanno dato 10,9 Mtep di cui 8 nel termico, contro ai 4, tutti elettrici, dell’idro, seconda fonte per importanza, dicono i dati GSE.
Con bilancio neutro in termini di emissioni CO2, legna, pellet e le altre biomasse sostituiscono dunque tantissima energia da fossili.
Se non vogliamo rinunciare a questo contributo, la strada obbligata dunque (oltre a investire in tecnologie pulite per il termico come le pompe di calore e solare) è bruciarli in maniera più efficiente e pulita,.
La stessa Arpa Toscana osserva infatti che la scelta tipo di apparecchio usato per riscaldare è molto importante e che l’84% delle emissioni da riscaldamento a legna è imputabile alla combustione in caminetti aperti e stufe tradizionali.
Un argomento sostenuto anche dalle associazioni di categoria come Aiel, Associazione Italiana Energie Agroforestali, che assieme a Confartigianato Veneto, Anfus (Associazione Nazionale Fumisti e Spazzacamini) e Assocosma (Associazione Nazionale Costruttori Stufe) nei giorni scorsi hanno diffuso una nota a sull’argomento (che avevamo in parte citato qui).
“L’apporto della combustione domestica alla produzione di Pm10 è in calo soprattutto grazie al turnover tecnologico”, cioè la sostituzione dei vecchi apparecchi obsoleti con nuovi e performanti generatori a legna e pellet, si spiegava citando i dati pubblicati da ARPA Veneto (-20% negli ultimi 7 anni) e da ARPA Lombardia(- 30% in 5 anni).
Una strada, quella di stimolare l’uso di stufe e caldaie a legna e pellet meno inquinanti, che il nostro paese ha intrapreso con il decreto ministeriale 186 del 2017, che ha introdotto una classificazione a stelle per questi generatori, usata da quest’autunno dalle Regioni del Bacino Padano per disciplinare l’uso del riscaldamento a legna.