In Italia non decollano le politiche per il clima e per le rinnovabili, tanto che il nostro Paese rimane inchiodato a metà della graduatoria sulle prestazioni ambientali ed energetiche delle Nazioni (più la Ue nel suo complesso).
Si tratta del Climate Change Performance Index elaborato da Germanwatch, Climate Action Network e New Climate Institute, in collaborazione con Legambiente per i dati italiani, presentato alla Cop 27 in corso a Sharm El-Sheikh, in Egitto.
Come si vede nella tabella sotto (cliccare sopra per ingrandire), siamo in ventinovesima posizione, appena meglio dello scorso anno, quando l’Italia si era classificata trentesima.
Per comporre questo indice, si sono presi diversi indicatori in quattro categorie, con differenti pesi percentuali sul punteggio finale assegnato a ciascun Paese:
- emissioni di gas serra (40%)
- sviluppo delle fonti rinnovabili (20%)
- usi energetici (20%)
- politiche per il clima (20%).
Il Climate Index cerca di misurare quanto ogni nazione sia coerente con gli impegni assunti al 2030 su energia e clima e con gli obiettivi degli accordi di Parigi.
A penalizzare il risultato italiano, evidenzia il rapporto, sono soprattutto due aspetti: la crescita rallentata delle rinnovabili, a causa della complessità delle autorizzazioni e dei tanti ritardi normativi, oltre a una politica ancora inadeguata a fronteggiare la crisi climatica.
L’attuale Piano nazionale integrato su energia e clima (Pniec), infatti, consente un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990, entro il 2030.
Restano vuote, anche in questa edizione della classifica, le prime tre posizioni, perché nessuno tra i Paesi considerati ha raggiunto le performance necessarie a limitare a 1,5-2 °C gli aumenti delle temperature medie entro fine secolo, rispetto ai valori preindustriali.
Ai primi posti si trovano le Nazioni scandinave, con Danimarca e Svezia rispettivamente al quarto e quinto posto. A seguire ci sono Cile, Marocco e India grazie al rafforzamento delle azioni climatiche, nonostante le loro difficili situazioni economiche. In fondo alla classifica ci sono, invece, Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.
La Cina, evidenzia una nota di Legambiente, “maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51esimo posto perdendo ben 13 posizioni rispetto allo scorso anno: nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo”.
Gli Stati Uniti, secondo emettitore globale, sono subito dietro alla Cina (52esimo posto), ma guadagno tre posizioni rispetto allo scorso anno; il risultato si spiega con la “nuova politica climatica ed energetica dell’amministrazione Biden che inizia a dare i suoi primi frutti, grazie al considerevole sostegno finanziario all’azione climatica previsto dall’Inflation Reduction Act“.
Intanto la tenuta dei Democratici alle elezioni di midterm dovrebbe consentire a Biden di proseguire la sua agenda climatica, sia in casa con il maxi piano green da 369 miliardi di $, sia sulla scena internazionale, cercando un ruolo di primo piano per gli Usa alla Cop 27 (si veda anche Le elezioni di midterm salvano l’agenda climatica di Biden).