Energia da biomasse e mitigazione del clima, un caso studio in India

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L’impiego di biomasse come alternativa ai combustibili fossili potrebbe contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici? Un'analisi nel contesto indiano fornisce alcune risposte.

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Mentre in Europa rischiano di essere tagliate fuori dal target rinnovabili, un recente studio evidenzia il potenziale delle biomasse nel mitigare i cambiamenti climatici.

Meno di un mese fa un gruppo di organizzazioni no-profit e cittadini ha presentato un’azione legale alla Corte di Giustizia UE per mettere in discussione la recente direttiva sulle fonti rinnovabili (Renewable Energy Directive, RED II). In particolare, la biomassa forestale, a detta del gruppo in questione, non sarebbe la fonte energetica “pulita” che viene descritta nella direttiva (vedi l’articolo).

Senza entrare nel merito della questione possiamo tuttavia dire che in altri contesti sociali ed economici, l’impiego di biomasse come alternativa ai combustibili fossili potrebbe contribuire effettivamente alla mitigazione dei cambiamenti climatici in corso.

A dimostralo è uno studio della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi pubblicato lo scorso febbraio sul Journal of Cleaner Production (allegato in basso).

Analisi preliminari

Lo studio è stato condotto nello stato indiano dello Uttar Pradesh il cui mix energetico è dominato in larga parte da impianti elettrici a carbone che interessano l’81% del consumo energetico totale. Solamente 2,7 GW sono da energie rinnovabili di cui 1,9 GW forniti da una rete di cogenerazione basata su biomasse e residui della macinazione della canna da zucchero (bagasse).

Residui colturali, letame e biomassa da piantagioni sono state le tre macro-categorie di risorse valutate dagli autori mentre disponibilità, potenziale energetico, densità energetica ed emissioni di gas ad effetto serra derivanti dal loro impiego, i parametri analizzati.

I primi risultati hanno evidenziato che nello Stato il surplus potenziale annuo di biomassa è pari a 70,63 Mt e che gli scarti delle coltivazioni agricole, di quelle da canna da zucchero in particolare, sono la biomassa maggiormente disponibile (51,43 Mt) – essendo lo Uttar Pradesh il principale stato indiano produttore – e quella con il più alto potenziale energetico.

I residui colturali, infatti, sarebbero in grado di rendere operativa una potenza elettrica di quasi 5.000 MW dei circa 7.000 MW potenzialmente sviluppabili da tutte le biomasse prese in considerazione.

La densità energetica delle materie prime della biomassa, definita come la quantità di energia immagazzinata in un dato sistema per unità di volume o per unità di massa, è risultata nel valore medio di 0,129 Wm-2.

Biomasse piantate, letame e bagasse, inoltre, sono risultate in questo contesto le risorse con il più alto rendimento energetico per unità di territorio.

Effetti sul clima

Utilizzando i dati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) i ricercatori hanno stimato le emissioni di gas ad effetto serra derivanti dall’impiego delle biomasse selezionate.

Come già detto, il potenziale energetico annuale delle biomasse nell’area di studio è di 7.028 MW: sviluppare tale potenza porterebbe, in termini di emissioni annuali, a 12,52 Mt di CO2, 0,0432 Mt di CH4 (metano) e 0,0043 di N2O (protossido di azoto).

Secondo l’indice GWP (Potenziale di Riscaldamento Globale) queste emissioni sono uguali a 15,16 Mt di CO2 equivalenti. In poche parole, ogni gas serra in base al proprio potenziale climalterante viene rapportato con la CO2 il cui GWP è convenzionalmente uguale ad 1.

“Se la stessa potenza energetica derivasse da carbone e gas naturale – evidenziano i ricercatori – le emissioni annuali di gas serra sarebbero rispettivamente di 50,48 Mt e 30,18 Mt di CO2eq. Una considerevole riduzione delle emissioni di gas serra – aggiungono – sarebbe quindi possibile se le biomasse sostituissero le fonti fossili come risorsa energetica”.

Per spiegare gli effetti di queste emissioni sulla temperatura gli autori si sono avvalsi dell’indice d’impatto ambientale AGTP (Absolute Global Temperature Change Potential o potenziale assoluto della variazione di temperatura globale).

Dal confronto con carbone e gas naturale è emerso che l’impatto delle emissioni di CO2 generate in un anno sulla temperatura del pianeta, nell’arco di 100 anni, è significativamente minore con l’impiego di biomasse (grafico a).

Grafico (a)

Se si considerano le sole emissioni di metano, è il gas naturale ad avere il maggior impatto sulle variazioni di temperatura (grafico b). Dalla fase di estrazione a quella di trasporto, infatti, le emissioni di metano nel ciclo di vita del gas naturale sono fortemente più elevate rispetto a biomasse e carbone.

Grafico (b)

Considerando invece le sole emissioni di N2O sono le biomasse ad avere il maggior impatto climalterante (grafico c). La coltivazione di queste risorse – principalmente a causa dell’impiego di fertilizzanti azotati – è infatti associata ad elevate emissioni di N2O.

Grafico (c)

È necessario, tuttavia, tener conto del “peso” (contributo percentuale) che ogni gas serra ha sull’aumento delle temperature della superficie terrestre (grafico più sotto), cioè sul suo impatto climalterante.

Ad esempio, a causa di un maggior effetto di surriscaldamento, il metano ha un potenziale climalterante di 21 volte superiore a quello della CO2, ma tuttavia rispetto a questa ha dei tempi di permanenza in atmosfera molto minori.

Questo spiegherebbe il perché per il metano si osserva un modesto contributo iniziale all’aumento delle temperature seguito da un impatto via via minore nel corso di 100 anni.

L’N2O, sebbene abbia un potenziale climalterante di oltre 300 volte superiore a quello della CO2 e dei tempi di permanenza relativamente lunghi, presenta un contributo percentuale all’aumento delle temperature minore rispetto a quello degli altri due gas serra.

La risposta a questa apparente anomalia risiede nella differente quantità che viene emessa. Per capire meglio basti pensare che la produzione energetica annuale da parte delle biomasse valutate nello studio porterebbe alle già citate 0,0043 Mt di N2O a fronte delle 0,0432 Mt di CH4 e delle 12,52 Mt di CO2.

Dal grafico è evidente che sono le emissioni di CO2 ad avere l’impatto dominante sull’aumento della temperatura nel corso di 100 anni e questo vale anche per le altre due risorse considerate (carbone e gas naturale).

In particolare, il contributo percentuale dell’anidride carbonica all’alterazione del clima sarebbe del 91,4% per un sistema energetico a biomasse (grafico in alto), del 98,3% in un sistema a gas naturale e del 99,7% in uno a carbone.

Gli autori hanno infine tenuto conto della possibilità che il sistema energetico basato sulle biomasse subisca delle variazioni, rispetto alla stima base di 7.028 MW, in funzione della disponibilità di materie prime. In sostanza sono stati ipotizzati due differenti scenari: uno che prevede una minor disponibilità di materie prime associata ad un potenziale energetico più basso e uno che invece ipotizza un aumento nella reperibilità delle risorse (materie prime più disponibili) con conseguente potenziale energetico più alto.

Come mostra il grafico sottostante, quando è più basso il potenziale energetico (3.427 MW) si ha il minimo impatto sulle temperature del pianeta (Biomass scenario-1), mentre si ha un impatto quasi simile a quello del gas naturale quando il potenziale energetico delle biomasse nello Stato indiano è più alto (9.883 MW) (Biomass scenario-2).

Alla luce delle evidenze riportate, gli autori concludono che “l’impiego di biomasse ha un impatto minore sull’aumento della temperatura superficiale rispetto al carbone e al gas naturale. La sostituzione dei combustibili fossili con biomasse potrebbe contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici”.

È opportuno precisare che lo studio si è limitato a valutare gli impatti delle emissioni di gas ad effetto serra senza considerare ad esempio la qualità dell’aria: le biomasse legnose combuste per il riscaldamento domestico con apparecchi non efficienti e di vecchia fabbricazione si sono rivelate infatti una delle principali fonti di particolato fine (vedi QualEnergia.it).

  • Lo studio della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi
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