Ma davvero il pellet inquina più di petrolio e carbone?

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Un articolo dagli Usa, ripreso anche dalle nostre testate giornalistiche, accusa il pellet di inquinare “quasi” tre volte in più di petrolio e carbone. Ma AIEL ha voluto fare chiarezza, anzitutto distinguendo tra qualità dell'aria ed emissioni di CO2.

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Nelle scorse settimane ha avuto un certo eco in Italia un articolo redatto da ricercatori dell’Institute for the Environment dell’Università del Nord Carolina pubblicato a dicembre 2023 sulla rivista scientifica Renewable Energy con il titolo “Emissions of wood pelletization and bioenergy use in the United States.

L’articolo è stato ripreso da alcune testate giornalistiche e un esempio di come la polarizzazione del dibattito sul tema delle biomasse legnose generi confusione e incertezza nella pubblica opinione, condizionandone le scelte.

Sul banco degli imputati è il pellet, accusato di inquinare “quasi” tre volte in più di petrolio e carbone, fonti fossili universalmente riconosciute come le principali cause del cambiamento climatico. Il pellet e le biomasse legnose vengono imputati di inquinare l’aria mentre viene contestato il principio della loro rinnovabilità, mettendo in discussione il loro contributo alla riduzione dell’anidride carbonica (CO2).

La pubblicazione fa riferimento alla peculiare situazione statunitense, il cui contesto industriale e i modelli di produzione di pellet e di produzione di energia da biomasse sono molto diversi da quelli europei e italiani.

Lo studio stima le emissioni atmosferiche di una serie di inquinati riconducibili a diversi settori:

  • dagli impianti industriali per la produzione di pellet (gli impianti statunitensi per la produzione di pellet sono caratterizzati da dimensioni significativamente più elevate rispetto agli impianti europei; lo studio citato considera nel complesso 128 impianti di produzione di pellet dotati di una capacità produttiva complessiva che supera le 21 milioni di tonnellate).
  • dalle centrali che impiegano vari tipi di biomassa (residui agricoli, fanghi, liquor nero, biomassa liquida e in parte biomassa solida legnosa) per produrre energia elettrica e termica (nel caso delle centrali per la produzione di energia elettrica e termica non è disponibile il dato riferito al numero di impianti considerati e alle caratteristiche impiantistiche ma vi è solo un dato aggregato espresso in termini di energia potenzialmente prodotta)
  • dai generatori per il riscaldamento domestico residenziale che impiegano legna da ardere e pellet (per gli impianti domestici lo studio riporta unicamente un dato aggregato per ciascuna fonte emissiva considerate senza tuttavia offrire alcuna indicazione in termini di numero di impianti, tipologia di generatore (stufe o caldaie), combustibile impiegato ed energia complessivamente prodotta)

Senza entrare nel merito dei contenuti e dell’adeguatezza del metodo di ricerca adottato, AIEL ritiene importante contestualizzare alcune affermazioni, affinché l’informazione su questi temi sia più corretta ed equilibrata.

Infatti, si parla di pellet al consumatore finale, che lo usa per riscaldare la propria abitazione, utilizzando argomentazioni che fanno riferimento ad altri settori, in questo caso ad altri Continenti, confondendo i piani e fornendo un’informazione parziale e distorta.

Qualità dell’aria e climate change: due questioni collegate ma distinte 

Nel processo di combustione della biomassa legnosa vengono emessi sia componenti che impattano sulla qualità dell’aria, in particolar modo particolato, sia anidride carbonica (CO2) che è stata assorbita durante il ciclo di vita della pianta.

Parlare contemporaneamente di emissioni climalteranti, rappresentate prevalentemente da CO2, e di emissioni che impattano sulla qualità dell’aria, come particolato, monossido di carbonio e composti organici volatili crea confusione.

Qualità dell’aria

Quando si parla di riscaldamento a biomassa, non si può prescindere dal tipo di tecnologia impiegata.

La combustione domestica della legna da ardere in apparecchi tecnologicamente obsoleti e condotti in modo scorretto, assieme al traffico, all’agricoltura e all’industria, è ancora oggi una delle principali sorgenti del PM10 misurato in atmosfera in inverno.

Tuttavia, la parte prevalente di tali emissioni proviene da stufe e caminetti obsoleti. Le tecnologie tradizionali, caratterizzate da processi di combustione superati, rappresentano ancora il 70% del parco installato in Italia e sono responsabili di quasi il 90% del particolato proveniente dal riscaldamento a legna (vedi Aiel, 2021, Libro bianco – pdf).

La buona notizia è che la qualità dell’aria è in miglioramento e un contributo significativo è dato proprio dalla decrescita, in atto da anni, delle emissioni imputabili al riscaldamento domestico.

Infatti, le emissioni di particolato legate alla combustione non industriale sono diminuite del 40% dal 2010 al 2022 (vedi AIEL, 2023, Rapporto Statistico – pdf).

Le più moderne tecnologie di riscaldamento domestico a legna, pellet e cippato, allo stato della tecnica, raggiungono oggi fattori di emissione di poche decine di grammi per unità di energia termica prodotta (GJ) e nei casi migliori (tecnologie a emissioni “quasi zero”) si arriva a pochi grammi, contro gli oltre 500 grammi emessi da una stufa tradizionale (fonte: Inemar).

Cambiamento climatico

Le biomasse legnose sono una fonte di energia rinnovabile e anche la Direttiva REDIII lo conferma.

Se la combustione delle biomasse forestali per produrre energia comporta l’emissione di CO2 come per le fonti fossili, è però fondamentale distinguere l’origine del carbonio:

  • la combustione di fonti fossili rilascia carbonio che è stoccato (immobilizzato) nel sottosuolo da milioni di anni (carbonio non biogenico), risultando quindi un’immissione netta in atmosfera ad opera dell’Uomo;
  • la combustione di biomassa legnosa comporta, invece, l’emissione di carbonio biogenico, riconducibile a un ciclo chiuso, breve e in atto in natura. Nel ciclo del carbonio biogenico nel momento in cui si taglia una pianta si genera un temporaneo debito carbonico (vedi Progetto Usefol – pdf): si apre cioè uno scarto temporale tra l’emissione di CO2 in fase di combustione e il suo successivo riassorbimento grazie all’accrescimento del bosco dopo il taglio. Il debito carbonico viene ripagato nel tempo necessario alla foresta per ricostituire la biomassa prelevata e compensare tutto l’assorbimento che si sarebbe verificato in assenza di prelievo legnoso (tempo di parità carbonica).

Inoltre, per valutare accuratamente l’impatto delle biomasse in termini di emissioni climalteranti bisogna considerarne l’intero ciclo di vita, adottando il cosiddetto Life Cycle Assessment (LCA).

Secondo uno studio LCA condotto dall’Università di Stoccarda (pdf) che ha riguardato diversi combustibili, sia fossili sia legnosi, utilizzati per il riscaldamento emerge che, a parità di energia termica prodotta, l’uso di biomasse legnose consente di ridurre le emissioni di CO2eq tra l’89% e il 94% rispetto ai combustibili fossili tradizionali.

Il futuro del riscaldamento a biomassa legnosa è nell’innovazione tecnologica e nel turnover tecnologico

Le moderne tecnologie a biomassa legnosa consentono di conciliare la necessità di miglioramento della qualità dell’aria con il processo di decarbonizzazione del riscaldamento residenziale. Infatti, possono raggiungere fattori di emissione comparabili con quelli del metano ma, al contempo, garantiscono una riduzione delle emissioni climalteranti in atmosfera (CO2eq) di oltre il 90%.

Uno studio sul ciclo di vita di caldaie a pellet di bassa potenza caratterizzate da alta efficienza e ridotte emissioni condotto dall’Università Cattolica e del Sacro Cuore (pdf), che considera anche le emissioni generate durante la produzione dei pellet (sul modello tedesco) conferma che caldaie a pellet efficienti riducono l’impatto ambientale complessivo, considerando sia emissioni climalteranti (CO2eq), sia emissioni che impattano sulla qualità dell’aria, di 4-5 volte rispetto ai combustibili fossili.

Nel caso del pellet, la fase maggiormente impattante in termini emissivi è la pellettizzazione (57%) seguita dalla combustione (29%) e dalla costruzione (14%). Contributi trascurabili sono dati dai trasporti e dallo smaltimento finale di caldaia e ceneri. È possibile prevedere una riduzione dell’impatto della pellettizzazione del 20-30% nel caso di produzioni locali che impiegano esclusivamente scarti forestali.

Concludendo…

Anche nel nostro Paese esistono contributi scientifici, esperienze virtuose e meno virtuose, filiere modello e situazioni più critiche che ci permettono di rappresentare la complessità di un tema molto dibattuto e spesso strumentalizzato, senza “scomodare” le filiere e le esperienze degli Stati Uniti, tanto diverse da noi e, pertanto, non pertinenti.

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