Crediti volontari per compensare la CO2: il mercato cresce ma manca di trasparenza

Il rischio di greenwashing è sempre in agguato: le analisi dell'Oxford Institute for Energy Studies.

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Il mercato mondiale dei crediti volontari per compensare la CO2 sta crescendo a dismisura, perché sempre più aziende, governi e istituzioni hanno annunciato obiettivi per azzerare le emissioni di anidride carbonica entro metà secolo.

Tuttavia, utilizzare meccanismi di carbon offset può essere una strada poco efficace e molto esposta al rischio di greenwashing: un ecologismo di facciata, ad esempio quando una multinazionale afferma di volersi impegnare di più sul fronte ambientale, senza poi agire realmente in quella direzione.

Questi i temi al centro di uno studio pubblicato da The Oxford Institute for Energy Studies (link in basso), con un focus sul mercato globale delle compensazioni della CO2 per il gas naturale liquefatto.

Il primo progetto di carbon offset, ricorda il documento, è del 1989: una riforestazione in Guatemala per compensare le emissioni di gas serra di una nuova centrale a carbone negli Usa, da parte di Applied Energy Services. Il progetto però non diede i frutti sperati, perché vennero piantati alberi non autoctoni e quindi poco adatti alle condizioni climatiche del Guatemala; inoltre questa iniziativa finì per esacerbare i conflitti tra le popolazioni locali per quanto riguardava gli usi dei terreni e degli stessi alberi.

Da allora, i mercati dei crediti per compensare la CO2 sono valutati complessivamente in più di 5 miliardi di $ ogni anno, evidenzia lo studio, anche se sono rimasti molti interrogativi e problemi sul corretto impiego di queste soluzioni.

Un progetto di carbon offset può davvero contribuire a ridurre le emissioni nette di CO2? Oppure si tratta solo di ecologismo di comodo che fa poco o nulla per il clima?

Il problema, spiegano gli autori, è che spesso è complicato dimostrare i vantaggi ambientali ottenibili con determinati programmi di compensazione; in molti casi è concreto il rischio che le aziende ricorrano al carbon offset per mantenere le loro attività inquinanti senza investire in tecnologie pulite, efficienza energetica, energie rinnovabili.

Tra i colossi petroliferi ci sono tanti esempi di greenwashing di questo genere, con grandi piani di riforestazione-piantumazione di alberi che dovrebbero compensare le emissioni di CO2 associate alla produzione di combustibili fossili.

Peccato che sia una scusa per continuare a estrarre petrolio e gas anziché ridurre progressivamente lo sfruttamento dei giacimenti fossili.

Torniamo qui al paradosso sottolineato dal Production Gap Report 2021 delle Nazioni Unite: gli stessi governi che puntano ad azzerare le emissioni al 2050 hanno pianificato di produrre carbone, gas e petrolio in quantità incompatibile con gli obiettivi climatici.

Un altro problema del carbon offset è la mancanza di standard internazionali e metodi di calcolo con cui misurare le emissioni totali di CO2 (sul ciclo di vita) per una certa attività, ad esempio il trasporto di LNG via nave.

Manca anche una definizione precisa, e comunemente accettata, su cosa si debba intendere per “neutralità carbonica” e su quali emissioni debbano essere incluse negli schemi di carbon offset.

Il risultato è che spesso i meccanismi di compensazione sono poco trasparenti e lacunosi.

Ecco perché diventa sempre più urgente definire regole e strumenti che consentano di verificare le riduzioni delle emissioni, così come altri aspetti rilevanti (caratteristiche dei progetti, prezzi, transazioni).

Per un approfondimento si veda anche questo articolo: Greenwashing, occhio al carbon-washing dei certificati volontari di compensazione.

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