Cosa serve ai Paesi per diventare leader della transizione energetica

Uno studio di varie università ha esaminato le reazioni di diversi Stati alle crisi energetiche: come e perché alcuni puntano più di altri sulle tecnologie pulite.

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Perché alcuni Paesi, molto più di altri, stanno guidando la transizione dalle energie fossili a quelle rinnovabili?

È la domanda alla base di un nuovo studio pubblicato su Science, intitolato “Why nations lead or lag in energy transitions” (link in basso), realizzato da un gruppo di ricercatori di varie università (Berkeley, Toronto, Londra, Twente).

La risposta è da cercare nel modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. In altre parole, le reazioni dei singoli Stati non dipendono solo dalle risorse energetiche ed economiche di cui dispongono, ma anche, e soprattutto, da alcuni fattori prettamente politici.

Gli autori, spiega una nota della Berkeley University, hanno esaminato come differenti nazioni hanno reagito alla crisi petrolifera degli anni ’70 e all’attuale crisi energetica che si è accentuata dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.

Di fronte a problemi simili (rincari energetici), le soluzioni sono state diverse: alcuni governi hanno accelerato progetti e investimenti in tecnologie pulite e misure di efficienza energetica, altri invece non ci sono riusciti.

Il punto, evidenziano i ricercatori, è che le politiche per favorire le energie pulite possono essere costose nel breve termine, per una serie di motivi: ad esempio, perché richiedono elevati costi iniziali di investimento per il ricambio tecnologico. In molti casi, bisogna riconvertire interi settori industriali, con tutti i rischi connessi come la perdita di posti di lavoro in alcuni segmenti delle filiere o la necessità di formare rapidamente il personale.

Quindi famiglie e imprese, spesso, si oppongono alla transizione e ciò si riflette nelle azioni dei governanti. Pensiamo alle difficoltà incontrate da Macron quando infuriarono le proteste dei gilet gialli in Francia contro la tassazione eccessiva dei carburanti fossili.

La carbon tax è un esempio di politica fiscale volta a disincentivare gli utilizzi di energie inquinanti, ma di difficile applicazione perché tende a generare malcontento tra i consumatori e le stesse industrie.

Le nazioni che finora hanno avuto più successo nella transizione energetica, sottolinea il principale autore della ricerca, Jonas Meckling, sono quelle che hanno creato delle istituzioni indipendenti (agenzie governative, ad esempio) che hanno aiutato a “mettere al riparo” i politici dalle pressioni di cittadini e lobbisti e ad assorbire i costi della transizione.

Inoltre, quei Paesi hanno compensato, dal punto di vista economico, determinate categorie di cittadini e imprese per gli extra costi associati alle politiche green.

Si riportano due esempi.

Uno è quello del California Air Resources Board (CARB), entità governativa relativamente autonoma che è stata incaricata dallo Stato della California di implementare gli obiettivi climatici statali, in particolare per quanto riguarda la riduzione delle emissioni inquinanti.

Altro esempio è il sistema di compensazioni finanziarie messo in piedi dalla Germania, al fine di chiudere progressivamente le centrali a carbone e far decollare nuove filiere industriali più pulite, come la produzione di idrogeno, le rinnovabili e i sistemi di accumulo energetico.

Invece Paesi come Stati Uniti, Canada e Australia, evidenzia Meckling, sono meno propensi a utilizzare compensazioni e preferiscono affidarsi alle transizioni trainate dal mercato, aspettando che scendano i costi delle tecnologie rinnovabili prima di adottarle su vasta scala. E questi, di solito, non sono climate leader.

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