Con Shell si vedono le prime crepe nella lobby del petrolio?

La multinazionale fossile olandese ha deciso di uscire dall’associazione Usa dell’industria petrolchimica in contrasto con le sue posizioni sul clima. Greenwashing o inizio di un cambiamento?

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Iniziano a vedersi le prime crepe nel sistema di lobby dei combustibili fossili: una delle maggiori compagnie mondiali di produzione petrolifera, Shell, ha appena deciso di abbandonare un’associazione industriale perché ha riscontrato una notevole differenza tra le rispettive posizioni sul clima.

In un documento pubblicato in questi giorni, Industry Associations Climate Review (allegato in basso), Shell parla di un sostanziale disallineamento, “material misalignment”, sulle politiche riguardanti il cambiamento climatico tra la multinazionale e l’American Fuel & Petrochemical Manufacturers (AFPM), tanto da aver stabilito di non rinnovare la sua appartenenza a tale associazione nel 2020.

E per altre nove associazioni industriali (sono 19 in totale quelle esaminate nel documento), Shell ha identificato delle parziali incongruenze tra la sua visione sul futuro dell’energia e quella portata avanti dalla lobby di riferimento; tra i diversi nomi sotto osservazione speciale figurano l’American Petroleum Institute, BusinessEurope e FuelsEurope.

Shell, si legge nel documento, intende promuovere le misure e le politiche coerenti con gli obiettivi climatici degli accordi di Parigi, di conseguenza punta a migliorare la trasparenza e chiarezza delle informazioni divulgate sulle sue iniziative, rimarcando le differenze rispetto alle iniziative delle associazioni in contrasto con tali accordi; e se non riuscirà a portare le lobby che considera “sporche” dalla sua parte, potrà decidere di non partecipare più alle loro attività o ritirare definitivamente la sua adesione.

Più in dettaglio, il documento evidenzia che Shell supporta l’obiettivo di limitare entro il 2100 l’aumento delle temperature medie sotto 2 gradi centigradi, rispetto all’età preindustriale; e supporta l’impegno di azzerare le emissioni nette di anidride carbonica nella seconda metà di questo secolo.

Di conseguenza, prosegue il Climate Review, il colosso petrolifero sostiene le politiche volte a introdurre sistemi di carbon pricing per aumentare il costo della CO2 rilasciata nell’atmosfera e così diminuire le emissioni inquinanti dei vari settori industriali.

Shell promuove anche la diffusione delle risorse energetiche più pulite, si legge, anche se fa rientrare in questa definizione un mix di tecnologie un po’ contradditorio, che va dalle fonti rinnovabili all’auto elettrica (ricordiamo che Shell ha appena acquisito il 100% di sonnen l’azienda tedesca specializzata nelle batterie per l’accumulo elettrico domestico), passando per i biocarburanti avanzati e le soluzioni CCS (Carbon Capture and Storage) con cui catturare le emissioni di gas-serra delle industrie.

Senza dimenticare che la compagnia olandese è anche a favore di un uso crescente del gas naturale, considerato indispensabile nel percorso verso la de-carbonizzazione (vedi qui il dibattito in corso a livello Ue sul ruolo da assegnare al gas all’orizzonte 2050).

D’altra parte, secondo le analisi del think-tank indipendente inglese InfluenceMap, Shell fa parte di quel gruppo di grandi compagnie fossili, insieme a ExxonMobil, Chevron, BP e Total, che negli ultimi tre anni ha speso oltre un miliardo di dollari, nel complesso, per diffondere notizie false e fuorvianti sul clima, direttamente o attraverso associazioni “amiche”.

Il greenwashing insomma è all’ordine del giorno per le società del Big Oil: far credere di essere preoccupate per le sorti del clima, anche se poco o nulla si fa di concreto per ridurre l’impatto ambientale.

“Dobbiamo essere pronti a sostenere apertamente i nostri dubbi, quando ci troviamo in disaccordo con un’associazione industriale sui temi che riguardano il clima” (traduzione nostra dall’inglese), ha dichiarato l’amministratore delegato di Shell, Ben van Beurden, nel presentare il nuovo documento.

E in caso di profonde divergenze, ha aggiunto van Beurden, “dovremmo anche essere pronti ad andarcene”.

Vedremo allora se da queste prime fratture nel blocco mondiale dell’industria di petrolio, gas e carbone, nascerà un nuovo flusso d’investimenti orientato con più forza e decisione verso le fonti rinnovabili.

Per il momento, le compagnie petrolifere sembrano poco disposte a trasformare i loro modelli di sviluppo, come ha confermato ad esempio il piano industriale di Eni 2019-2022 che ha lasciato solo le briciole agli investimenti in rinnovabili, preferendo puntare la maggior parte delle risorse economiche su oro nero, gas naturale e raffinerie “verdi”, tanto da essere incorsa in una segnalazione di pubblicità ingannevole per la campagna promozionale del green diesel (vedi qui).

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