Alla ricerca dell’acciaio “sostenibile”, una strada non facile

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Quali tecnologie andranno adottate per produrre l'acciaio attraverso un processo meno impattante, ma comunque economicamente competitivo? Ne abbiamo parlato con Carlo Mapelli, ingegnere dei materiali del Politecnico di Milano.

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Il cambiamento globale delle fonti di energia in senso rinnovabile si sta rivelando relativamente facile in alcuni settori, come la produzione elettrica, ma complicato in altri, come il trasporto stradale, e difficilissimo in alcuni settori industriali, primo fra tutti quello dell’acciaio.

Il settore dell’acciaio causa il 5% delle emissioni di CO2, oltre a una enorme quantità di inquinanti di ogni tipo, dalle polveri sottili fino agli idrocarburi aromatici.

Per questo sentiamo parlare sempre più spesso di “acciaio sostenibile” o “acciaio verde”, cioè la realizzazioni di nuove filiere produttive di questo materiale, fondamentale per la società moderna, che lo rendano meno impattante su clima, ambiente e salute (Ilva e le altre: come rendere più sostenibile l’industria siderurgica).

In Italia il dibattito sul tema si concentra soprattutto sulle ultime due grandi acciaierie rimaste, Taranto e Piombino.

Taranto, sia pure con una produzione dimezzata rispetto alla massima possibile, è l’ultima a produrre ancora acciaio attraverso il “ciclo integrato”, che parte dal minerale di ferro, e attraverso altiforni, cokerie, convertitori e laminatoi, termina con i semilavorati.

La prima fase del ciclo integrato, la più inquinante, è la riduzione del metallo di ferro in ghisa, facendolo reagire ad alta temperatura nell’altoforno con coke (carbon fossile “arrostito” per renderlo più resistente e puro).

La reazione ad alta temperatura fra carbone e ossido di ferro produce enormi quantità di CO2: ogni tonnellata di ghisa (ferro arricchito di carbonio) che esce dall’altoforno richiede circa 500 chili di carbone, da cui derivano due tonnellate di CO2.

La ghisa fusa, estratta dall’altoforno, viene poi portata in convertitori dove è trasformata, con ossigeno, in acciaio, e quest’ultimo passa infine in laminatoi per ottenere barre, binari, tondini, eccetera.

Il “ciclo integrale” è estremamente inquinante e climalterante, ma, per il riutilizzo del calore proveniente dall’altoforno, anche molto efficiente energeticamente, economico e in grado di assicurare grandi produzioni e molta occupazione.

La domanda è quindi: è possibile produrre acciaio attraverso un processo meno impattante, che al tempo stesso resti ragionevolmente economico?

Lo abbiamo chiesto all’ingegnere dei materiali Carlo Mapelli, del Politecnico di Milano.

“È difficile, proprio per l’alta efficienza energetica consentita dal ciclo integrato dell’acciaio, alimentata da un combustibile economico come il carbone”, ci spiega Mapelli.

“Una prima soluzione che è stata proposta è quella di applicare la cattura e sequestro della CO2 ai fumi degli altiforni. Ma si scontra con i grandi problemi tecnici ed economici già visti nel caso delle centrali elettriche, e comunque il CCS non risolverebbe l’inquinamento da produzione di coke”.

Per cui, più realistica parrebbe la strada dell’eliminazione di altiforni e cokerie, sostituendo il carbone con altre sostanze riducenti, in grado, cioè, di strappare l’ossigeno al minerale di ferro.

“Un’alternativa già in uso è il metano: trattando il minerale polverizzato in impianti chiamati preriduttori con gas naturale, si ottiene ferro preridotto, che può essere convertito in acciaio nei forni elettrici usati per i rottami. Per ogni tonnellata di preridotto con metano, le emissioni di CO2 scendono a 0,7 tonnellate per tonnellata di acciaio, un terzo rispetto all’uso di carbone”.

È già un passo avanti, ed è questa la strada che sembra si voglia seguire sia a Taranto che a Piombino, usando preridotto ottenuto con metano, oppure importato o realizzato sul posto. Ma anche così siamo ancora molto lontani dall’acciaio “verde” promesso.

“Dando per scontato che l’elettricità nelle varie fasi della filiera sia al 100% rinnovabile, per ottenere l’eliminazione totale della CO2 del ciclo dell’acciaio senza altiforni, bisogna cambiare il modo in cui si ottiene il preridotto. Anche in questo caso c’è chi propone di applicare il CCS alla CO2 prodotta nei preriduttori: sarebbe più facile farlo che con i fumi degli altiforni, che contengono tantissimo azoto, ma sempre complesso e costoso”, ci spiega Mapelli.

Oppure si cambia la sostanza riducente, scegliendone una che non contenga carbonio fossile. L’alternativa più gettonata nel mondo è l’idrogeno che reagisce con il minerale di ferro producendo solo vapore acqueo (Acciaio da idrogeno verde, H2 Green Steel raccoglie 1,5 miliardi di euro). Prototipi di questo tipo sono già in uso in Svezia.

“Si può fare, certo, ma a che costo? Per una tonnellata di preridotto servono 675 metri cubi di idrogeno verde. Prodotto per elettrolisi servono 3 MWh di elettricità, a un costo di 2-300 euro contro i 50 euro circa di mezza tonnellata di carbon fossile” chiarisce il professore del Polimi.

“Una acciaieria come Taranto per produrre le 3 milioni di tonnellate di acciaio attuali, richiederebbe 9 TWh di elettricità verde, cioè quasi un quarto di tutta la produzione elettrica solare italiana del 2023. Con le attuali tecniche di produzione di idrogeno e gli attuali costi, vedo difficile che un acciaio all’idrogeno possa essere economicamente sostenibile”.

Ci sono poi altre strade.

“Un’azienda italiana, la I-Smelt, per esempio, produce preridotto con carbone di origine biologica, cioè da legno, scarti agricoli, fanghi di depurazione. Altri propongono l’uso del biometano, da digestione anerobica di sostanze organiche, al posto di quello fossile. In questi casi si produce CO2, ma da carbonio non fossile, già assorbito dall’aria da piante, quindi con un bilancio di CO2 neutro. Il problema di questi metodi è che la produzione di questi sostituti non fossili di carbone e metano per adesso è molto limitata, lontana dalla richiesta di una grande filiera dell’acciaio”.

Secondo l’esperto energetico Giovan Battista Zorzoli, usando per il preridotto un mix di biometano e idrogeno da elettrolisi, con il primo ottenuto da piante coltivate in 10mila ettari di agrivoltaico e il secondo dall’elettricità proveniente dai pannelli sui campi, sarebbe possibile alimentare l’attuale produzione dell’acciaieria di Taranto.

Mapelli però preferisce una soluzione più semplice, di cui si parla poco.

“L’idrogeno si può ottenere dal metano fossile anche attraverso pirolisi, cioè un suo riscaldamento a temperatura molto alta in assenza di ossigeno. Il processo da una parte produce idrogeno e dall’altra polvere di carbonio, molto più facile da stoccare permanentemente rispetto alla CO2; è utilizzabile, peraltro, anche per realizzare materiali per l’industria. Il metodo consente quindi di ottenere idrogeno senza CO2, a un costo molto più basso che con elettrolisi e poco più alto di quello del metano fossile, rendendo quindi l’acciaio ‘sostenibile’ più competitivo che con gli altri metodi”, dice Mapelli.

Ma, a proposito di sostenibilità, questo “acciaio verde”, inevitabilmente più costoso di quello da ciclo integrato con carbon fossile, come farà a restare sul mercato?

«Qui devono intervenire gli Stati, sostenendo questa industria innovativa. Oltre a ciò, dal 2025 sarà in funzione anche il meccanismo europeo CBAM, che farà pagare dazi alla frontiera a prodotti, come l’acciaio, proporzionali a quanta CO2 fossile sia stata emessa per realizzarli. Questo dovrebbe ostacolare la concorrenza sleale da parte di acciai meno sostenibili”.

Quindi, il futuro dell’acciaio dipenderà, oltre che dal riciclo sempre più capillare di questo materiale, anche dall’abbandono degli altiforni, e l’uso di preridotto?

«Probabilmente sì, anche se ogni paese dovrà trovare la sua strada secondo le sue risorse industriali, minerali ed energetiche. Ma la strada da percorrere è ancora piena di incognite e ostacoli di vario tipo: Uno dei più preoccupanti è che, per ora, si può ottenere preridotto solo da circa il 5% del minerale di ferro, quello di migliore qualità”, conclude l’ingegner Mapelli.

In altre parole, se non si riusciranno a costruire nuovi tipi di preriduttori che funzionino con una gamma molto più ampia di minerale di ferro, la filiera dell’acciaio più o meno sostenibile resterà una piccola nicchia, e gran parte di questo materiale continuerà a provenire ancora dai vecchi ed estremamente inquinanti altiforni.

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