Settori hard to abate, per decarbonizzarli servirà il concorso di molte tecnologie

Osservatorio Zero Carbon Technology Pathways: molte le opzioni tecnologiche low carbon a vari livelli di maturità, ma nessuna è dominante. Servirà una combinazione di più soluzioni a seconda del contesto di utilizzo.

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Nell’industria esistono imprese per le quali la sfida della decarbonizzazione è veramente molto impegnativa.

Si tratta di comparti legati a prodotti particolari oppure dove il processo produttivo richiede grandi quantità di energia termica, difficilmente producibile rinunciando alla combustione di fonti fossili.

Si chiamano settori hard to abate e comprendono cementifici, acciaierie, cartiere, vetrerie, imprese siderurgiche e chimiche: da loro arriva più o meno il 20% delle emissioni globali (il 14% dai soli due settori del cemento e del ferro-acciaio) e se da un lato abbatterle è prioritario, dall’altro è anche difficile, perché richiede ingenti investimenti in tecnologie low carbon che non sempre si recuperano.

Il primo Osservatorio Zero Carbon Technology Pathways, presentato dall’Energy & Strategy della School of Management del Politecnico di Milano il 17 gennaio (vedi Decarbonizzare i settori “hard to abate” in Italia costerà fino a 80 miliardi), ha dedicato ampio spazio alle potenzialità e ai limiti delle tecnologie che le aziende hard to abate italiane hanno a disposizione per puntare all’obiettivo della decarbonizzazione.

Dopo i trasporti, in Italia l’industria rappresenta oggi il secondo settore in termini di peso sulle emissioni totali.

Il trend del comparto è abbastanza virtuoso, perché a fronte di un’economia in crescita, le emissioni si sono ridotte del 44% nel periodo 2008-2021, scendendo a 107 Mton di CO2 equivalente.

Già a partire di primi anni 2000, infatti, si è avviato quel decoupling tra Pil e gas serra che significa diminuzione di intensità energetica e intensità carbonica, come del resto è avvenuto in tutta Europa.

Questi risultati, però, non bastano per centrare l’obiettivo Ue delle emissioni zero nel 2050 e la responsabilità è proprio dello “zoccolo duro” rappresentato dai settori hard to abate (vedi grafico): l’Osservatorio stima che in uno scenario “business as usual” qui si potrebbe al massimo arrivare a una riduzione del 54%, rispetto al 2020.

Per individuare le imprese hard to abate, che in Italia producono circa il 70% delle emissioni totali dell’industria, l’Energy & Strategy del Politecnico di Milano ha utilizzato due criteri.

Da un lato la quantità di emissioni di processo legate al prodotto, non eliminabili semplicemente con la sostituzione del vettore energetico. Dall’altro, la quantità di calore ad alta temperatura (superiore ai 250 °C) necessaria alle varie fasi produttive, tenendo conto del fatto che in questi casi l’elettrificazione comporterebbe una sfida tecnico-economica davvero ardua, dato che servirebbero centinaia di MW di potenza elettrica. Anche quando si devono raggiungere temperature inferiori, attorno ai 150 °C, l’elettrificazione appare una strada comunque difficile da percorrere.

L’elettrificazione, però, non è l’unica soluzione per abbattere le emissioni. Ne esistono almeno altre tre principali che dovranno assumere un ruolo importante: idrogeno, biocombustibili, Carbon capture and Storage (CCS).

Questi sono solo i macro-insiemi, perché calando a terra l’indagine, il Politecnico ha mappato ben 115 differenti tecnologie che possono contribuire a tracciare la traiettoria verso l’obiettivo carbon zero in tutti i settori economici. La maggior parte (46) sono relative alla produzione energetica decarbonizzata, 60 all’utilizzo dell’energia (39 in ambito industriale), oltre a 9 differenti sistemi per la CCS.

Ciascuna soluzione ha un differente potenziale per la riduzione delle emissioni scope 1, ossia quelle generate direttamente dall’attività e dai processi aziendali. Ma per essere utilizzati proficuamente, questi asset dovranno attendere in molti casi i progressi della tecnologia. Se in media il voto assegnato alla maturità tecnologica complessiva è sufficiente (6,8 su 9) alcune soluzioni sono promosse a pieni voti, mentre per altre c’è ancora qualche passo da fare, anche in termini di sostenibilità economica.

Dall’analisi effettuata emerge che bisogna lavorare soprattutto sul miglioramento tecnologico nella fase di consumo, perché per quanto riguarda la produzione di energia e di idrogeno la maturità è sostanzialmente raggiunta.

Un buon esempio a questo proposito lo fornisce la concreta possibilità di utilizzare l’idrogeno. Nel breve termine è ipotizzabile una graduale penetrazione di questo vettore energetico in miscela con le fonti fossili, perché la tecnologia dei bruciatori, dei generatori di vapore, dei cogeneratori è già oggi abbastanza matura per supportare produzioni “blend” con il gas naturale.

Per contro, questo apporto avrebbe un impatto per la decarbonizzazione solo marginale. Le soluzioni full-hydrogen, invece, hanno un potenziale di decarbonizzazione decisamente più alto, ma sono in gran parte ostacolate dalla scarsa maturità tecnologica o dalla necessità di sostituire completamente i macchinari utilizzati.

L’indagine osserva che anche per i diversi biocombustibili e per i sistemi di CCS (dove allo stesso modo esistono tecnologie più o meno mature e più o meno impattanti per la decarbonizzazione) non mancano gli ostacoli alla diffusione: incide le complessità della filiera produttiva nel primo caso e le fattibilità tecnico-economica nel caso della CCS, perché limita l’applicabilità a specifici contesti (sarebbe poco o per nulla conveniente utilizzare sistemi di CCS dove i fumi sono poco ricchi di CO2).

C’è infine un problema infrastrutturale che rischia di limitare fortemente l’adozione delle tecnologie low carbon.

“Lo sviluppo infrastrutturale dovrà andare di pari passo con quello tecnologico, soprattutto per quanto riguarda le reti elettriche e quelle del gas che dovranno adeguarsi al trasporto dell’idrogeno”, osserva Simone Franzò, responsabile della ricerca”

“Ed esiste parallelamente un tema non trascurabile di scalabilità per alcune tecnologie, se vogliamo che possano svilupparsi su grandi volumi. Ad esempio, le capacità di stoccaggio per la CCS”, ha aggiunto Franzò.

Se da un lato la molteplicità di tecnologie a disposizione è un fattore in sé confortante, d’altro canto i nodi da sciogliere risultano quindi ancora parecchi.

Dal focus che l’Osservatorio ha dedicato ai settori della chimica e dell’acciaio, emerge come tutte le tecnologie presentino qualche criticità e non emerga una “killer application”, ossia una soluzione tecnologica dominante per abbattere le emissioni scope 1. Bisognerà implementare una combinazione di diverse soluzioni, la cui applicabilità ed efficacia dipende dallo specifico contesto di utilizzo.

Senza contare che vi sono altre emissioni con cui i settori hard to abate devono fare i conti, oltre a quelle dirette scope 1, e spesso non sono affatto trascurabili.

Se le emissioni scope 2, derivanti dall’utilizzo di elettricità o calore di cui un’azienda si approvvigiona dall’esterno, possono essere aggredite tutto sommato facilmente, per esempio grazie alla fornitura o all’auto-produzione di elettricità da fonti rinnovabili, la vera sfida appare lo scope 3.

In alcuni settori industriali questa quota che coinvolge l’intera catena del valore (a monte e a valle del processo produttivo) è predominante. Nella produzione di acciaio, ad esempio, si stima che siano più di un quarto del totale, nella chimica oltre tre quarti. Contano in questo caso le fasi di estrazione e lavorazione delle materie prime sui quali le imprese hanno scarsi margini di controllo, ma che potrebbero essere evitate ricorrendo all’adozione di principi di economia circolare.

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