La produzione di acciaio e cemento, due dei settori storicamente più difficili da decarbonizzare, finisce nel mirino del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (Doe), che ha destinato ingenti investimenti in nuove tecnologie in un piano più ampio che passa anche per l’obiettivo di abbattere le emissioni delle due filiere.
Lunedì 25 marzo è stato annunciato lo stanziamento di un massimo di 6 miliardi di dollari per progetti di acciaio e cemento “green”: la produzione del primo supera annualmente a livello globale il 9% delle emissioni di CO2 causate dall’uomo, più di qualsiasi altra industria pesante, mentre il secondo segue immediatamente dietro, incidendo per l’8% delle emissioni globali.
Quasi l’80% dei progetti sono situati in località svantaggiate, come sancito dalla Justice40 Initiative voluta Biden per garantire che almeno il 40% dei sussidi climatici ed energetici federali vadano alle comunità americane storicamente emarginate e più sensibili agli effetti del cambiamento climatico.
Due progetti pilota per l’acciaio verde
Due aziende statunitensi leader nella produzione di acciaio, Cleveland-Cliffs e SSAB, si sono aggiudicate fino a 500 milioni ciascuna per costruire impianti di produzione di acciaio a basse emissioni alimentati con idrogeno green (invece che con carbone o gas fossile). Negli Stati Uniti non esistono ancora strutture di questo tipo e oggi ce n’è soltanto una che opera su scala significativa a livello mondiale: si tratta del progetto Hybrit in Svezia, di cui SSAB è partner.
Cleveland-Cliffs prevede di installare il suo impianto “hydrogen ready” in un complesso già esistente a Middletown, in Ohio. SSAB costruirà una struttura da zero nella contea di Perry, nel Mississippi. Ciascuno dei produttori dovrà contribuire integrando il finanziamento federale con una propria quota. Il sostegno del governo è però fondamentale, dato che banche e investitori sono generalmente riluttanti a sostenere progetti simili, ad alta intensità di capitale e potenzialmente rischiosi.
Al momento la maggior parte dell’acciaio viene prodotto utilizzando altiforni, in cui il minerale di ferro e il carbone purificato (o “coke”) vengono riscaldati innescando reazioni chimiche. Il monossido di carbonio che si genera si lega agli atomi di ossigeno del minerale di ferro, formando CO2 che viene rilasciata nell’aria. Negli Stati Uniti esistono ancora 13 altiforni obsoleti, sette dei quali sono di proprietà della Cleveland-Cliffs.
Per attuare il processo a riduzione diretta del ferro (Dri), meno inquinante, serviranno grandi quantità di idrogeno verde, da far legare con gli atomi di ossigeno nel minerale di ferro per generare come “materiale di scarto” l’acqua e non l’anidride carbonica. Secondo il Doe grazie agli investimenti stanziati le emissioni di gas serra annue nello stabilimento dell’Ohio dovrebbero ridursi di 1 milione di tonnellate.
La tecnologia Dri esiste da decenni e ad oggi sono state implementate quasi 100 strutture di questo tipo in tutto il mondo, di cui tre negli Stati Uniti, ma la trasformazione in acciaio liquido avviene in forni alimentati con combustibili fossili. L’alternativa rinnovabile è rappresentata dai forni elettrici ad arco, alimentati da fonti pulite.
Cleveland-Cliffs ha affermato che la sua nuova struttura Dri di Middletown potrà essere alimentata in tre modi: a gas fossile, con una miscela di gas e idrogeno green, oppure solo con idrogeno green. Diversamente invece SSAB costruirà un impianto che funziona soltanto a idrogeno, come il progetto Hybrit svedese.
Cemento: soluzioni per un settore ‘hard to abate’
Contestualmente all’acciaio, altri sei progetti americani riceveranno in totale un miliardo e mezzo di dollari per ridurre l’impronta di carbonio del cemento. Circa il 40% delle emissioni del settore provengono dall’utilizzo di combustibili fossili nei forni utilizzati nel processo produttivo. Il resto deriva dal processo chimico di scomposizione del calcare nelle sue parti costituenti di ossido di calcio e, appunto, CO2.
Il Doe ha stimato in un rapporto dello scorso anno che circa un terzo delle emissioni dell’industria del cemento potrà essere eliminato utilizzando tecnologie e processi consolidati entro l’inizio del prossimo decennio. I restanti due terzi saranno più difficili e costosi da ridurre – si legge – richiedendo investimenti cumulativi tra 5 e 20 miliardi di dollari entro il 2030 e tra 60 e 120 miliardi di dollari entro la metà del secolo.
Tra le soluzioni che hanno ricevuto aiuti statali c’è quella promossa dalla startup californiana Brimstone, che sta sviluppando un modo per convertire le rocce silicatiche contenenti ossido di calcio (ma prive di atomi di carbonio) in cemento Portland, il più utilizzato.
In Virginia invece la Roanoke Cement Company di Troutville si è aggiudicata fino a 61,7 milioni di dollari per sperimentare con l’argilla calcinata come materiale cementante supplementare alternativo per dimezzare il quantitativo di clinker, il componente base del cemento Portland, ricavato principalmente da argilla e calcare. Il cosiddetto LC 3 (cemento calcareo argilloso calcinato) può infatti essere prodotto con emissioni fino al 40% inferiori rispetto al cemento standard.
Infine, due importanti sovvenzioni da 500 milioni l’una saranno destinate a due progetti di Ccus (Carbon capture, utilization and storage), la pratica di catturare il carbonio direttamente dall’aria e riutilizzarlo (o stoccarlo nel suolo) sulla cui efficacia c’è grande scetticismo.
Il primo progetto è di Heidelberg Materials, che punta a catturare almeno il 95 % dell’anidride carbonica – un tasso piuttosto elevato e ottimistico per le tecnologie odierne – dal suo impianto recentemente ristrutturato a Mitchell, nell’Indiana. Il secondo è della National Cement Company della California, che adotterà un approccio multitecnologico (Ccus e argilla calcinata) nel suo stabilimento di Lebec, in California .