Siderurgia, la ricetta di Legambiente per un acciaio più sostenibile

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Al convegno "L'acciaio oltre il carbone. Nuovi orizzonti a tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro" di Taranto esperti e ricercatori spingono per la tecnologia Dri e la costruzione esclusiva di forni elettrici.

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L’Italia, con le sue 21 milioni di megatonnellate di acciaio immesse sul mercato, è il secondo Paese europeo dopo la Germania per produzione siderurgica.

Il settore impiega complessivamente circa 70 mila addetti per una produzione composta all’80% di acciaio secondario, prodotto cioè dalla fusione di rottami ferrosi nei forni elettrici, e al 20% di acciaio primario, di cui l’impianto Acciaierie d’Italia (ex Ilva) è l’unico stabilimento.

L’intero sistema si basa però su un processo altamente inquinante, che si realizza tramite il ciclo integrale con altoforno, utilizzando minerale ferroso e carbone come materie prime. Per questo motivo proprio a Taranto nel corso del convegno nazionale “L’acciaio oltre il carbone. Nuovi orizzonti a tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro” tenutosi venerdì 17 novembre e organizzato da Legambiente si è parlato di modi più sostenibili per proseguire con la produzione siderurgica nazionale.

La riconversione dell’industria e del settore siderurgico, sottolinea l’associazione ambientalista, passano necessariamente per un incremento e una veloce transizione del settore elettrico verso le rinnovabili presenti sul territorio.

Al 2050 secondo Legambiente dovremmo essere capaci di produrre 600 TWh/anno di elettricità verde con un’incidenza dell’acciaio prodotto con idrogeno pari a circa il 5% (un fabbisogno corrispondente a 30 TWh).

Gli esperti e i ricercatori che hanno partecipato all’iniziativa hanno infatti sottolineato l’importanza della tecnologia Dri, il processo di produzione sostenibile di ferro a riduzione diretta che avviene rimuovendo l’ossigeno contenuto nelle varie forme di minerale di ferro facendolo reagire direttamente con l’H2 producendo ferro e acqua all’interno di un forno a temperature relativamente basse (circa 1000 °C).

Secondo uno scenario elaborato da Wood Mackenzie, gruppo globale di ricerca e consulenza del settore energetico, la quota di DRI sulla domanda totale di metalli aumenterà dall’attuale 6% al 13% entro il 2050, con una produzione che crescerà quasi cinque volte più velocemente della domanda totale di metalli, fino a 320 milioni di tonnellate.

L’adozione della tecnologia Dri avrebbe benefici anche da un punto di vista occupazionale: a fronte di un modesto calo dei posti di lavoro nell’industria siderurgica – sostiene Legambiente – ci sarebbe un’enorme crescita di forza lavoro qualificata, che nel 2050 raggiungerà 900mila addetti, per la realizzazione, gestione e manutenzione degli impianti Fer.

La tecnologia Dri è già realtà in diverse parti del mondo come l’India (28 milioni di tonnellate/anno di capacità) e l’Iran (26 Mt/anno). In Europa nuovi impianti sono in costruzione in diversi Stati.

E sono già quattro gli esempi nel nostro Continente cui è possibile ispirarsi: la Svezia con il modello HYBRIT che grazie a un impianto Dri a idrogeno verde punta a produrre dal 2026 1,3 Mt l’anno di acciaio pulito, per arrivare a 2,7 Mt nel 2030 e la H2 Green Steel che punta invece a produrre 5 Mt di acciaio verde a Boden (avvio della produzione previsto entro la fine del 2025); la Finlandia dove la Blastr Green Steel vuole investire 4 miliardi  di euro per produrre 2,5 milioni di tonnellate (Mt) di acciaio low carbon dal 2026 utilizzando idrogeno verde.

Poi c’è la Germania che punta a produrre 100mila tonnellate l’anno di acciaio tramite idrogeno grigio ottenuto dal gas, per poi passare all’idrogeno verde, tramite un progetto avviato nel 2019 da Arcelor-Mittal che prevede un investimento di 65 milioni di euro per sperimentare la produzione di acciaio verde ad Amburgo

E, infine, l’Austria, che con il progetto H2FUTURE, finanziato dall’Unione europea, ha costruito a Linz quello che attualmente è il più grande impianto pilota per la produzione di idrogeno per l’industria siderurgica.

“Per salvare l’ex Ilva, siderurgia e rinnovabili devono convivere – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – solo imboccando senza tentennamenti la strada della decarbonizzazione è possibile garantire la produzione di un settore hard to abate come è quello dell’acciaio, strategico per l’economia di Taranto, della Puglia e dell’intero Paese. Lo esige il drammatico tributo di morti e malati che ha pagato il territorio tarantino”.

Le valutazioni di danno sanitario (VDS) effettuate hanno riscontrato nel tempo eccessi di mortalità e di numerose malattie e un profilo sanitario alterato della popolazione locale. Legambiente ribadisce quindi con forza la necessità di rendere obbligatoria la valutazione preventiva dell’impatto sanitario (VIS), per stabilire se e quanto si possa produrre senza compromettere la salute degli abitanti, oltre che dei lavoratori, di Taranto.

L’obiettivo della VDS è oggi di stimare quanti casi si potrebbero evitare adottando scelte sostenibili per ambiente e salute, sapendo che ogni microgrammo per metro cubo di PM2,5 in meno eviterebbe da 12 a 18 decessi l’anno.

Questa è una delle sei proposte avanzate durante il convegno, le altre prevedono di definire linee guida nazionali di politica industriale per orientare le scelte delle imprese verso decarbonizzazione e innovazione dei processi produttivi, prevedere la costruzione solo di forni elettrici e impianti per la produzione di Dri, abbattere le barriere burocratiche che ostacolano lo sviluppo delle rinnovabili, bonificare le aree contaminate e garantire una giusta transizione, con accordi di programma stringenti, nei territori interessati dalla riconversione industriale. 

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