La gassificazione sotterranea del carbone, un’altra potenziale bomba climatica

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La gassificazione del carbone ci farà rimpiangere il fracking in termini di inquinamento ed emissioni? La Undergroung Coal Gasification o UCG è una tecnica per sfruttare riserve inaccessibili: dare fuoco ai giacimenti di carbone per estrarne gas combustibili. Oggi molti lo considerano un processo "pulito" che consentirebbe di utilizzare carbone per secoli. Ecco perché sarebbe una soluzione folle.

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“Se pensate che il fracking sia un incubo, non avete ancora visto nulla”, inizia con questa frase inquietante un articolo di New Scientist che conferma come il sistema energetico basato sui fossili, sia tutt’altro che sul viale del tramonto, ma, anzi, proceda tranquillamente lungo la strada dello sfruttamento delle risorse “non convenzionali”, non disturbato da bazzecole come inquinamento, proteste popolari, accordi internazionali, cambiamenti climatici.

L’articolo ci avverte che mentre ancora impazzano le polemiche riguardanti il fracking (l’estrazione di metano, fratturando rocce impermeabili), in varie parti del mondo si sta sperimentando una tecnologia ancora più folle, agli occhi di chi pensa che ormai gran parte delle riserve di carbone e idrocarburi sarebbe meglio mantenerle sotto terra: dare fuoco ai giacimenti di carbone, per estrarne gas combustibili.

Si tratta della cosiddetta Undergroung Coal Gasification, UCG, un tecnica ideata oltre 150 anni fa in Germania per sfruttare giacimenti inaccessibili, perché molto profondi o posti sotto le città o il mare, ma utilizzata finora solo una volta nella storia.

Il processo consiste nello scaldare fortemente il carbone con poca aria, per ricavarne una miscela composta di azoto, CO2, monossido di carbonio, metano e idrogeno. Questi ultimi tre gas, separati dal resto e dalla polvere, possono essere bruciati direttamente, oppure, come facevano i tedeschi durante l’ultima guerra mondiale, impiegati nell’industria chimica, per realizzare combustibili liquidi o altre sostanze di sintesi.

In pratica, basta scavare un pozzo che raggiunga la vena di carbone, dare fuoco al minerale, pompare aria per alimentare le fiamme, ed estrarre il gas di combustione da altri pozzi. Dosando attentamente l’aria immessa si può alimentare la combustione in modo che la temperatura resti intorno ai 1000°C, e si inneschi la reazione fra CO2 e carbone, trasformando quest’ultimo in monossido di carbonio, si produca idrogeno dalle reazioni con l’acqua e si liberi il metano contenuto nel filone.

Visto che circa 15.000 miliardi di tonnellate, sui 18.000 totali delle riserve di carbone stimate, sono considerate inaccessibili alle tecniche minerarie, utilizzandol’UCG,, si produrrebbe, in teoria, abbastanza energia per alimentare il mondo per un millennio (e profitti in proporzione). E trasformare il carbone in gas, consentirebbe di aggirare le sempre più strette normative antinquinamento che stanno facendo chiudere centinaia di centrali a carbone nel mondo: il carbone lo si brucia lo stesso, ma in forma “pulita”.

Che il sistema funzioni, lo dimostra l’unico UCG oggi operativo, vicino alla città di Tashkent, in Uzbekistan, dove da 50 anni un incendio controllato in un giacimento non sfruttabile di lignite, alimenta una centrale elettrica vicino alla capitale.

Nel 2007 l’UCG uzbeco è stato acquistato dagli australiani delle Linc Energy e della Carbon Energy, per fare esperienza in vista dell’inizio delle operazioni commerciali in un UCG che stavano sperimentando dal 2002 nel Queensland. Nel 2011, quando ormai erano pronti a cominciare a operare, però, le autorità australiane li hanno fermati, perché si era manifestato un inquinamento da cancerogeni benzene e toluene nelle falde acquifere sopra il giacimento sotterraneo che stavano bruciando. Il fatto è che la combustione ad alta temperatura e il vuoto che si forma in profondità, fratturano le rocce sopra per centinaia o migliaia di metri, permettendo ai fumi di infiltrarsi nel terreno e nelle falde, inquinandole.

La fine dell’esperienza australiana, non li ha però certo scoraggiati: la Linc, ha iniziato a operare in Cina e negli Usa, la Carbon Energy in Cile, Cina e Argentina.  

Un’altra società, la Laurus Energy, ha annunciato che inizierà nel 2015 la vendita di gas da UCG in Alaska e Canada, mentre la Five Quarter Energy, grazie anche a 15 milioni di sterline di aiuti pubblici, ha chiesto un permesso per sfruttare i giacimenti di carbone sotto il Mare del Nord, nel nordest dell’Inghilterra, con l’idea non solo di produrre elettricità dai gas estratti, ma anche di venderli alle locali industrie chimiche, che oggi devono importarli dagli Usa e rischiano di chiudere.

A questo punto uno dotato di un minimo di coscienza ambientale resta basito: ma come si fa a pensare di mettere in pratica una tecnologia simile, in grado di bruciare letteralmente l’intera scorta di carbone terrestre e riportare il clima al tempo dei dinosauri, con un +10°C di temperatura media e i mari decine di metri più alti di oggi? L’IPCC parla invano? I governi scherzavano quando annunciavano di non voler far salire la CO2 sopra i 450 ppm, e limitare così a meno di 2 °C la crescita delle temperature globali?

Gran parte dei proponenti dell’UCG, a giudicare dai loro siti internet, non si curano minimamente del climate change e, del resto, fino a che non ci saranno limiti e leggi internazionali sulle emissioni, nessuno gli potrà impedire di bruciare il carbone su cui hanno acquisito i diritti minerari.

A meno che, come accaduto in Australia, non producano anche inquinamento chimico ma, come ha soavemente dichiarato Harry Bradbury, geologo della Five Quarter Energy «Questo non è un problema se il giacimento è sottomarino», come se i mari si potessero tranquillamente avvelenare. E immaginiamo che l’inquinamento non sia un problema neanche operando nei paesi poveri o con forte corruzione pubblica, più interessati agli investimenti che ai danni ambientali.

Bradbury ha comunque la soluzione pronta per i problemi climatici. Nulla di nuovo: il sequestro sotterraneo della CO2, o CCS. «Invece di immettere aria nel giacimento per bruciare il carbone, immetteremo ossigeno puro, così da ridurre il volume del gas, e rendere più facile la separazione della CO2 dai gas utili, che potrà essere poi reimmessa nelle cavità create dalla combustione».

Bello, se solo non fosse che il CCS, è stato annunciato mille volte, ma mai messo in pratica su larga scala, essenzialmente perché i suoi costi cancellano i profitti nell’uso del carbone. Inoltre la CO2 ha una massa tripla di quella del carbone da cui proviene: non basterebbero certo i vecchi giacimenti (fratturati dal calore, fra l’altro) per contenerla. Infine alla CO2 del carbone, va aggiunta anche quella prodotta dall’uso dei gas combustibili da esso ricavati, che sicuramente finirà in aria.

Insomma, l’industria dei combustibili fossili, nella sua frenetica corsa a raschiare il fondo del barile in vista dell’esaurimento delle risorse convenzionali, ne sta facendo un’altra delle sue, e presto riuscirà a farci rimpiangere i bei tempi del fracking.

A meno che la politica si decida a fare sul serio e dichiari a livello planetario off limits quei giacimenti che la Natura, nella sua infinita saggezza, aveva cercato di tenere alla larga dalle nostre rapaci mani.  Ma, visti i miliardi in gioco, forse non ci dovremmo contare molto.

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