I fuorvianti sogni energetici dell’Economist e del Corriere della Sera

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Un editoriale del settimanale britannico, ripreso da Federico Rampini sul quotidiano milanese, affronta problemi energetici complessi con riflessioni semplicistiche, ignorando la storia recente, distorcendo la realtà e non facendo un buon servizio ai lettori.

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Questi tedeschi vivono nel mondo dei sogni e nel loro stato di sonnambulismo si sono dati ripetutamente la zappa sui piedi quando hanno deciso di chiudere le centrali nucleari e rinunciare alle abbondanti riserve di gas che attendono solo di essere sfruttate proprio sotto quegli stessi piedi, consegnandosi in ostaggio alla Russia per la (magra) soddisfazione dei loro fabbisogni energetici.

In estrema sintesi, questo è il senso di un recente editoriale apparso sull’Economist e prontamente ripreso dal Corriere della Sera a firma Federico Rampini.

Potrebbe sembrare una lettura accurata della realtà, un’interpretazione apparentemente ragionevole e ragionata dei fatti. Dopo tutto, alla base di ogni delirio, ossessione o fake news di maggiore impatto, si nasconde quasi sempre un granello di verità, che in una logica orwellianamente rovesciata è poi quella che sostiene l’intero macigno di realtà distorte.

Proviamo allora a proporre una lettura diversa della realtà, basata sui fatti per come si sono sviluppati nel corso di decenni, per il contesto in cui sono avvenuti e che a loro volta hanno modificato.

In questa realtà, secondo noi più fattuale e meno semplicistica di quella illustrata dall’Economist e dal Corriere, i tedeschi, lungi dal vivere nel mondo dei sogni ed essersi dati la zappa sui piedi, hanno fatto quello che qualunque attore razionale avrebbe fatto se si fosse trovato al loro posto e con la loro storia per quanto riguarda il rifiuto del nucleare e la sua sostituzione col gas fossile.

E hanno fatto quello che all’epoca nessun altro aveva il coraggio di fare per quanto riguarda le energie rinnovabili.

Tutto ciò in modo lungimirante e con impatti che, come vedremo, sconfessano e svuotano di ragionevolezza le critiche superficiali dell’Economist e le ripetizioni pedisseque del Corriere.

E se può essere trovata una pagliuzza nell’occhio dei tedeschi, assieme a una trave negli occhi di chi li critica adesso, è quella di non essersi spinti ancora più in là e con ancora maggiore coraggio lungo la strada delle fonti rinnovabili.

L’editoriale dell’Economist e del Corriere pecca di faciloneria in vari modi:

  1. manca completamente il nesso diretto fra la scelta anti-nucleare in Germania e il successivo sviluppo delle rinnovabili nel mondo;
  2. ignora le ragioni storiche e profonde della scelta anti-nucleare tedesca;
  3. dimentica che la scelta iniziale di sostituire il più possibile il carbone col gas – e quindi con quello russo, in quanto abbondante, accessibile e a buon mercato – fu una scelta fatta da molti, fra cui l’Italia in prima fila con la sua campagna “Il metano ti dà una mano”, e ritenuta di buon senso dai più.
  4. glissa sul fatto che eventuali nuove centrali nucleari non sono compatibili per costi e tempi di realizzazione con gli obiettivi di decarbonizzazione e che spesso le vecchie centrali esistenti sono caratterizzate da guasti e chiusure;
  5. non contempla a quale costo sia avvenuto il successivo boom del gas di scisto (shale gas) statunitense, reso possibile dal cosiddetto “fracking,” cioè la fratturazione idraulica della crosta terrestre con getti ad alta pressione che liberano gli idrocarburi imprigionati nella roccia, che i due articoli auspicherebbero e prendono implicitamente ad esempio, ignorando i suoi gravissimi impatti.

Vediamo brevemente ciascuno di questi punti.

Il nesso fra anti-nuclearismo tedesco e rinnovabili

La transizione energetica, oggi sulla bocca di tutti, trova una vera e propria pietra angolare nel movimento antinucleare tedesco e nell’ascesa del partito dei Verdi alla fine degli anni ’70 in Germania.

Il cordone ombelicale che lega l’orientamento anti-nucleare della Germania e lo sviluppo delle rinnovabili fu la necessità di impedire che la rinuncia all’atomo si traducesse in un ancora maggiore ricorso alle fonti fossili, di cui già nei decenni scorsi si conoscevano gli effetti nocivi su natura e salute.

In altre parole, senza la scelta tedesca di abbandonare il nucleare e puntare su fotovoltaico e altre rinnovabili con programmi innovativi di sviluppo e incentivazione all’inizio degli anni 2000 (feed-in tarifs), copiati poi da mezzo mondo, Italia compresa, non si sarebbe avuta l’esplosione cambriana delle energie rinnovabili che si è poi verificata.

Non ci sarebbe stato o sarebbe stato molto più lento l’aumento della domanda di fotovoltaico, che ha innescato l’aumento dell’offerta, le economie di scala e il drastico calo dei costi, che ormai da qualche anno e senza sussidi hanno reso fotovoltaico ed eolico le fonti di generazione elettrica più a buon mercato.

Senza il “nein” al nucleare, oggi le rinnovabili di tutto il mondo sarebbero presumibilmente ancora meno sviluppate e l’Europa, paradossalmente, sarebbe ancora più dipendente dal gas – cioè dalla Russia – e non meno, e ancora più indietro nel percorso di decarbonizzazione.

“Parallelamente al phase-out nucleare, abbiamo creato nel 2000 la legge sulle energie rinnovabili. Con questa legge, volevamo evitare che il phase-out nucleare portasse ad un aumento della produzione di energia fossile e ad un peso sul clima”, ha spiegato a Clean Energy Wire Rainer Baake, capo della Climate Neutrality Foundation, ex segretario di stato del ministero dell’energia e fra gli architetti della prima legislazione tedesca sull’uscita dal nucleare.

La scelta anti-nucleare

La convinzione che l’energia nucleare non debba far parte del mix energetico tedesco risale agli anni ’70 e ha una lunga storia, legata alla critica della proliferazione nucleare in ambito bellico, di cui gli usi civili sono una derivazione.

Ne seguirono anni di proteste contro i progetti di centrali nucleari in diverse località tedesche, alimentate prima dall’incidente di Three Mile Island negli Stati Uniti nel 1979 e successivamente dalla catastrofe di Chernobyl nel 1986.

È anche con queste motivazioni profonde che il movimento antinucleare ha ispirato sia il fronte progressista, con la decisione del 2000 del governo social-democratico di Gerhard Schroeder di uscire gradualmente dal nucleare, sia il fronte conservatore, con la decisione del governo cristiano-democratico di Angela Merkel di confermare la decisione dopo l’incidente del 2011 a Fukushima, in Giappone.

Si può non essere d’accordo con il disarmo, in tutte le sue forme, ma la decisione anti-nucleare dei tedeschi non dovrebbe sorprendere. Anzi, una scelta del genere, oltre ad essere storicamente comprensibile, se non necessaria, dovrebbe fare onore alla Germania, viste le sue responsabilità nella Seconda Guerra Mondiale.

Non c’entra quindi niente il vivere in un mondo dei sogni. Lungi dall’avere preso la strada anti-nucleare in uno stato di sonnambulismo, è proprio perché i tedeschi hanno saputo guardare alla realtà con occhi ben aperti e prendersi le loro responsabilità storiche che hanno detto no al nucleare.

La scelta pro-gas (russo)

La decisione di passare gradualmente dal carbone al gas fu ritenuta in molti casi l’unica scelta di buon senso massicciamente praticabile all’epoca per soddisfare il fabbisogno elettrico di paesi a forte industrializzazione come la Germania e la stessa Italia.

A cavallo dei due secoli, infatti, le rinnovabili non erano ancora mature, il carbone nel sottosuolo tedesco stava diventando più difficilmente estraibile e quindi anti-economico e il gas naturale liquefatto importato da altri lidi, oltre ad essere di per sé più caro del gas russo via tubo, tra i più puri, era molto meno sviluppato di oggi, e anche nel 2021 ha soddisfatto solo il 20% della domanda complessiva di gas nell’Unione Europea.

Quanto ai rischi geo-politici e di dipendenza energetica, se da un punto di vista di realpolitik le importazioni di gas siberiano avevano funzionato con “l’impero del male” sovietico, non si vedeva perché non dovessero funzionare anche con la Russia di Vladimir Putin, politicamente più debole ed economicamente più allineata con l’Occidente.

Praticamente tutti hanno fatto affari con il Cremlino e gli oligarchi del presidente russo, e chi è senza peccato scagli la prima pietra.

I problemi di tempo e costi dell’atomo

Tanto per dare un’idea dei tempi del nucleare, il governo francese prevede che i progetti per le sue nuove centrali saranno presentati intorno al 2023, con l’obiettivo di far entrare in funzione i reattori di nuova generazione nel 2035-37, dichiarava qualche tempo fa il ministro dell’ambiente transalpino, Berangere Abba, al quotidiano Le Figaro. Ma non sono affatto esclusi i forti ritardi che hanno caratterizzato la costruzione di altre centrali.

Riguardo gli impianti già esistenti in Francia, maggiore potenza nucleare dell’Ue, metà dei 56 reattori di EDF sono attualmente fuori servizio a causa di manutenzioni e lavori necessari per risolvere problemi di corrosione delle strutture che richiederanno un piano “su larga scala” e “diversi anni” per essere risolti, ha indicato l’autorità di regolamentazione nucleare francese, secondo cui c’è il rischio che altri reattori possano essere fermati.

Parlando delle date-obiettivo del 2035-37 annunciate dal governo francese per l’allaccio delle nuove centrali nucleari alla rete, vale la pena ricordare un annuncio simile fatto nel 2008, dagli allora presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, e presidente francese, Nicolas Sarközy. I due leader firmarono un memorandum che prevedeva la costruzione di quattro reattori EPR, che si sarebbero dovuti aggiungere agli unici due già allora in costruzione, uno in Finlandia a Olkiluoto e uno in Francia a Flamanville.

Delle centrali annunciate nel 2008 non se ne fece più nulla; quella finlandese (Olkiluoto 3) avviata nel 2005, sta producendo in fase di test da poche settimane (e già ci sono dei problemi) e quella francese è ancora in costruzione.

Quanto ai costi, l’azienda proprietaria della tecnologia, Areva, impegnata nella costruzione in Finlandia, è fallita e la spesa per il reattore finlandese è quadruplicata rispetto alla cifra originaria, secondo le stime. È andata anche peggio a Flamanville, il cui cantiere è gestito da EDF e i cui costi di costruzione sono lievitati fino al 700%, tenendo conto anche dei costi finanziari, come valutati dalla Corte Des Compts nel 2020 (CdC, La filière EPR – pdf)

I costi del fracking

Il boom del fracking e del gas e petrolio di scisto americani sembrava una storia di grande successo fino a pochi anni fa. Ora alcuni dei suoi nomi più famosi si sono rivolti ai giudici fallimentari statunitensi per farsi proteggere dalle richieste di rimborso del debito da parte dei creditori. E non è ancora finita, secondo Bloomberg.

Le debolezze del settore risalgono a molti anni fa, con le compagnie petrolifere e del gas statunitensi che hanno accumulato oltre 300 miliardi di dollari di perdite dal 2010.

Secondo l’ultimo rapporto dello studio legale Haynes & Boone, citato sempre da Bloomberg, dall’inizio del 2015 più di 230 produttori nordamericani di petrolio e gas, con un debito di almeno 152 miliardi di dollari, hanno presentato istanza di fallimento.

Solo nel secondo trimestre, le società fallite avevano debiti totali per 29 miliardi di dollari e le ristrutturazioni non accennano a diminuire: secondo i dati compilati da Bloomberg, giugno è stato il mese più intenso in assoluto con sette fallimenti nel settore petrolifero e del gas. Nello stesso mese, la crisi dello shale ha segnato la fine del pioniere della rinascita del fracking americano, Chesapeake Energy Corp.

Perché tutti questi fallimenti? Perché il fracking non succhia solo gas e petrolio, sventrando le viscere della terra, ma anche soldi per i continui finanziamenti di cui ha bisogno.

La produzione petrolifera da fracking scende infatti di circa il 70% nel primo anno, rispetto al 5% della perforazione verticale convenzionale. Ciò significa che sono costantemente necessari nuovi prestiti per trivellare nuovi pozzi, destinati ad un rapido abbandono. Ciò lascia un groviera di buchi e infrastrutture improduttive e incustodite, che continuano a emettere metano nell’atmosfera, e che nella maggior parte dei casi sono prive di depositi cauzionali per la loro chiusura in sicurezza e il rimedio ambientale delle aree interessate.

Il numero preciso di pozzi abbandonati negli Stati Uniti non è certo, ma esistono alcune stime. Sarebbero circa 3,7 milioni i pozzi abbandonati, di cui circa 3 milioni pozzi di petrolio e 700mila pozzi di gas, secondo gli ultimi dati dell’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa), pubblicati nell’aprile 2022 e relativi al periodo 1990-2020.

Ci sono più di 900.000 pozzi di petrolio e gas attivi negli Stati Uniti e più di 130.000 sono stati perforati dal 2010 e sfruttati col fracking, durante il boom dello shale americano, secondo un rapporto del 2017 del Washington Post.

L’agenzia americana per la protezione dell’ambiente, da parte sua, ha riscontrato evidenze scientifiche secondo cui le attività di fratturazione idraulica possono avere un impatto sulle risorse di acqua potabile in circostanze che potrebbero essere anche molto diffuse, come per esempio prelievi di acqua per la fratturazione idraulica in periodi di siccità o aree di scarsa disponibilità idrica, in particolare in zone con risorse idriche sotterranee limitate o in declino.

La critica costruttiva è sempre utile, ma, in conclusione, chi vive nel mondo dei sogni? Forse i tedeschi, o qualche giornalista che li accusa con ragioni poco avvedute e senza sapere apparentemente di cosa parla?

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