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Shale oil Usa in sofferenza, rischia svalutazioni miliardarie e un’ondata di fallimenti

Secondo un nuovo studio di Deloitte quasi un terzo dei produttori di petrolio da scisti è tecnicamente insolvente e potrebbero essere necessarie svalutazioni per 300 miliardi di dollari.

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L’onda lunga del Covid-19 sta continuando a montare negli Stati Uniti, rischiando di abbattersi non solo, con decine di migliaia di contagi, sulla sanità americana, ma anche, con una montagna di debiti e fallimenti, sul settore petrolifero a stelle e strisce.

E più specificatamente sul comparto del petrolio da scisti, o shale oil, che negli ultimi anni ha reso gli USA il maggiore produttore mondiale di greggio.

Secondo un nuovo rapporto del gigante della consulenza Deloitte LLP, infatti, con il greggio a 35 dollari al barile, quasi un terzo dei produttori statunitensi di shale oil è tecnicamente insolvente, nel senso che, a quel prezzo, il valore scontato futuro di queste aziende è inferiore alle loro passività nette. Se poi il prezzo medio del barile dovesse calare a 20 dollari, la percentuale di società insolventi salirebbe a quasi il 50%.

Sono dati che secondo Deloitte evidenziano un’acuta precarietà finanziaria del comparto, che non può dormire sonni tranquilli, anche a fronte del rimbalzo che i prezzi petroliferi hanno segnato dal minimo record fatto segnare ad aprile, quando i future sulla varietà di riferimento americana, West Texas Intermediate (WTI), scesero a quasi -40 dollari al barile.

I produttori di petrolio da scisto già stavano facendo fatica a operare con il greggio a 50 dollari al barile prima che la pandemia di Covid-19 si abbattesse sulla domanda globale di greggio, causando un crollo dei prezzi. Quest’anno, i produttori di shale oil potrebbero essere costretti a svalutare le loro attività per 300 miliardi di dollari, ha indicato Deloitte.

Si tratta di una cifra pari all’intero valore di mercato di Chevron Corp. e Royal Dutch Shell Plc, le compagnie petrolifere numero 2 e 3 al mondo – sintomo di un cambiamento strutturale del settore petrolifero che, come detto anche in precedenti articoli, solo il mese scorso, ha visto BP annunciare svalutazioni fino a 17,5 miliardi di dollari a causa dei mutati scenari, Shell tagliare i dividendi e Repsol cancellare 4,8 miliardi di euro di attività.

Il WTI quota stamani poco sopra 40 dollari il barile, un livello sostanzialmente più alto rispetto agli ultimi mesi, ma il rimbalzo non potrà evitare a lungo problemi di sovracapacità, generati da 15 anni di crescita tumultuosa della produzione, basata sul fracking e finanziata da massicci prestiti di Wall Street.

Ed è proprio questo che Deloitte vuole sottolineare: l’insolvenza tecnica è infatti un modo di dire contabile per segnalare che un’azienda dovrà affrontare problemi di rimborso del debito.

“Nuovi e imprevisti venti contrari continuano a ostacolare il progresso del settore”, hanno detto Duane Dickson, Kate Hardin e Anshu Mittal, gli autori del rapporto The Great Compression: Implications of COVID-19 for the US Shale Industry. “Anche se il prezzo sotto zero è stato uno scossone temporaneo, questa intensa volatilità mette in evidenza il fragile stato del settore”.

Sebbene le svalutazioni siano voci che non incidono sui flussi di cassa delle società, esse riducono il valore del patrimonio netto delle compagnie, aumentando il loro rapporto debito/patrimonio netto, una misura chiave dell’indebitamento utilizzata da banche e finanziatori.

Questi potrebbero chiudere i rubinetti dei prestiti ad un settore già altamente indebitato, ridurne i flussi, o potrebbero pretendere tassi d’interesse maggiori o anche cominciare a far scattare clausole di rientro anticipato dal debito – una situazione che spingerebbe dritte al fallimento molte società di un settore che, con le svalutazioni, vedrebbe aumentare la propria leva finanziaria dal 40% al 54%, secondo lo studio, scaricabile dal link in fondo all’articolo.

Questo “può innescare molte sequenze negative di eventi, compreso il fallimento”, ha indicato Deloitte.

Il boom della produzione petrolifera di scisto, molto dispendiosa, ha catapultato gli Stati Uniti al primo posto della classifica mondiale di estrazione, ma per farlo, dal 2010, le aziende hanno “bruciato” circa 342 miliardi di dollari in contanti, lasciando poco agli investitori.

Fra le società già inguaiate, Chisholm Oil & Gas ed Extraction Oil & Gas hanno chiesto la scorsa settimana di accedere alle procedure di tutela dal fallimento, cosa che avevano già fatto in precedenza anche altre società, tra cui Whiting Petroleum Corp. e Ultra Petroleum Corp.

Le procedure per la ristrutturazione del debito, il cosiddetto Chapter 11, sono già quasi una ventina quest’anno, e presto potrebbe farvi ricorso anche Chesapeake Energy, pioniere del comparto del petrolio di scisto, che la settimana scorsa ha mancato il pagamento delle cedole di alcune obbligazioni.

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