Ma veramente il fotovoltaico è il “nemico numero uno” dell’agricoltura?

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Le cause della scarsa fertilità dei terreni agricoli in Italia non dipendono certo dalla minaccia, presente e futura, del FV a terra. Eppure, la chiusura di Coldiretti è totale. Le aperture di alcuni agronomi e una proposta per salvare suoli e solare.

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Un demone si aggira sui campi italiani, distruggendoli, è il fotovoltaico.

Questa è la narrativa diffusa dal ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, con quella sorta di vade retro fotovoltaico dai terreni agricoli contenuto nel disegno di legge sull’agricoltura, solo in parte successivamente temperato dall’intervento del suo collega all’Ambiente Gilberto Pichetto-Fratin, a cui deve essere venuto un colpo a sentire quelle parole, sapendo che la strategia energetica italiana nei prossimi decenni è basata soprattutto sul FV e che, per i numeri richiesti, quello a terra sarà fondamentale.

Risultato dello scontro intergovernativo: un gran polverone, molte chiacchiere e un testo confuso, che probabilmente in futuro cambierà ancora, e si spera nel senso di una maggiore ragionevolezza.

Intanto, però, viene da chiedersi se veramente sia il solare la maggiore minaccia per la sopravvivenza e la produttività dell’agricoltura italiana.

L’impoverimento dei nostri terreni agricoli

Ad aiutarci arriva, casualmente, il fatto che proprio in questi giorni si celebra il centenario della Unione internazionale delle scienze del suolo, e che perciò il ricercatore Giuseppe Corti, esperto di suoli agricoli del Crea, istituto di ricerca in agricoltura, abbia descritto in vari comunicati, quale sia lo stato dei terreni agricoli nel nostro paese.

“L’Italia in solo 70 anni ha visto calare la frazione organica media nei suoli agricoli da circa il 2,5% a circa l’1% attuale. Mancando quella componente il suolo diventa infertile, incapace di trattenere l’acqua e di immagazzinare la CO2 e facile preda di erosione. In queste condizioni si trova circa la metà del suolo agricolo italiano”, ha detto.

Questo lo si nota già ad occhio nudo in tante parti d’Italia, per esempio quando si vedono pali della luce o alberi posti su collinette di terra: è l’effetto del dilavamento del terreno attorno, diventato incapace di resistere a piogge sempre più intense.

“Quando la frazione organica scende sotto l’1%, ridare fertilità al suolo è molto difficile, e allora sono guai, perché per riformare spontaneamente 10 centimetri di suolo fertile, servono fra 5000 e 10000 anni”, aggiunge Corti.

Chi è il colpevole di tale degrado dei suoli? Il fotovoltaico, come direbbe Lollobrigida?

“La ragione ricade soprattutto su decenni di agricoltura intensiva, che sostituendo letame, rotazione colturale e riposi, con scassi profondi, irrigazioni eccessive e fertilizzanti artificiali, ha via via reso il suolo sempre più ‘minerale’. E visto che i suoli degradati sono coltivabili solo in modo intensivo, spesso si continua a insistere con quelle pratiche, peggiorando ancor più la situazione”, conclude Corti

Quindi è l’agricoltura intensiva la principale ragione del degrado dei suoli su cui viene praticata, non certo il FV su terra, che al momento copre appena 150 kmq dei 128.000 kmq destinati all’agricoltura in Italia; mentre occupazioni ben più distruttive per il suolo, come case, strade e parcheggi, ne hanno cancellati 740 kmq negli ultimi 15 anni, senza suscitare, a quanto se ne sa, reazioni allarmistiche da parte del ministro.

Ma forse i legislatori mettono le mani avanti per prevenire una futura “pannellizzazione” d’Italia?

In realtà anche nell’ipotesi (assurda) che tutti i 57 GW ulteriori di FV previsti al 2030 fossero messi su terreno agricolo, sì arriverebbe a una copertura ulteriore di circa 600 kmq. Ma, considerando l’installazione anche in altre aree e siti, la cifra più probabile è intorno a 300-400 kmq.

Non esattamente un’invasione, anche considerando che i presunti terreni agricoli di cui si parla, non solo comprendono cave e miniere esaurite, discariche e persino bacini idrici, ma ben 35mila kmq di terreni abbandonati da almeno tre anni, perché marginali o, appunto, ormai insteriliti. Installare impianti FV a terra lì non ruberebbe neanche una spiga di grano.

E diverse ricerche, come quella della Solar Energy UK, hanno mostrato che il FV a terra, che peraltro è solo appoggiato al suolo, riparando il terreno dal sole, proteggendolo dalla brina e incrementando l’umidità al suolo, in molti casi può offrire un riparo a piante e invertebrati, facendo crescere la biodiversità e anche il numero di insetti impollinatori, che poi vanno a “lavorare” nei campi e frutteti circostanti.

La chiusura di Coldiretti

Diventa allora molto difficile capire la ratio della posizione del governo, che sembra chiaramente ispirata dalla posizione “NO FV” che Coldiretti, associazione agricola molto ascoltata da Lollobrigida, ha da sempre.

Chiedendo lumi a quest’ultima ci ha risposto Stefano Masini, professore di diritto agrario e presidente di Coldiretti Ambiente

Sintetizzando la sua posizione e dell’associazione, ci ha ribadito ancora una volta che il fotovoltaico deve stare lontano dai campi, perché non è una attività agricola, occupa il terreno per troppo tempo e danneggia il suolo (vedi sopra …).

Gli agricoltori, ci dice Masini, già danno il loro contributo alla transizione energetica con il biogas, e niente altro gli deve essere chiesto; quanto ai terreni improduttivi questi lo sono per ragioni soprattutto economiche, e invece di usarli per il solare bisogna aiutare gli agricoltori a coltivarli di nuovo.

Infine, Masini conclude con una non molto chiara richiesta di trovare nuovi compromessi fra le due produzioni, energetica e agricola, anche se in Coldiretti, in tutto ciò, il FV a terra proprio non ce lo vedono.

Insomma, una chiusura totale, anche se l’associazione non spiega come possa l’Italia riuscire a produrre energia rinnovabile sufficiente per alimentare la rete elettrica e abbastanza economica da essere competitiva, prima di tutto per il sistema produttivo, senza installare a terra qualche decina di GW di fotovoltaico, come stanno già facendo tutti i paesi avanzati.

Installare impianti solo sui tetti, come proponeva uno studio del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (pdf), in teoria può coprire la domanda, ma con una energia solare dieci volte più cara di quella a terra. Energia pagata dai consumatori oppure sovvenzionata dallo Stato, ma in entrambi i casi si tratta di una soluzione disastrosa per l’economia, vista la potenza necessaria.

Il fotovoltaico come aiuto all’agricoltura

Ma, tornando alla realtà, veramente il FV è incompatibile con l’agricoltura?

“Assolutamente no”, risponde Andrea Colantoni, professore di agronomia dell’Università della Tuscia. “L’agrivoltaico permette di usare i terreni per entrambe le produzioni, sia energetica che alimentare, senza particolari problemi, anzi, in certi casi, aumentando pure la produttività agricola”.

Colantoni dopo aver studiato i vari sistemi di agrivoltaico (pdf) per definirne le linee guida, ora presiede una startup dell’Università nel settore e sta collaborando a progetti per 500 milioni di euro di agrivoltaico con la danese European Energy, volti a intercettare gli 1,6 mld di euro stanziati dal governo per questa forma di produzione solare, fra cui un generoso 40% di finanziamento dell’impianto a fondo perduto.

“Le stime indicano che si dovrebbe riuscire a installare 1,6 GW di agrivoltaico già entro il 2026; di primo livello, cioè con i pannelli posti vicino al suolo, ma al massimo solo su un terzo del campo agricolo disponibile, garantendo la coltivazione del resto; e di secondo livello, quello con i pannelli a oltre due metri di altezza, per permettere la completa lavorazione del terreno sottostante”, ci dice.

Quindi l’agrivoltaico in queste forme già dimostra un’interessante compatibilità fra i due modi di usare il terreno e di essere in grado di mettere a terra molta potenza.

Però se l’agrivoltaico di primo livello costa già il 10-20% in più di quello “standard a terra”, quello di secondo livello, raddoppia il costo, ed è competitivo solo se fortemente incentivato.

Sembra allora difficile che questa forma innovativa di produzione solare sia in grado di produrre le grandi quantità di elettricità a costi competitivi richieste al 2030 o, peggio ancora, al 2050.

Una proposta per salvare suolo ed energia solare

Mettendo insieme quanto detto finora, ci viene in mente un’altra idea: e se si ribaltasse il punto di vista, considerando il FV come un possibile strumento dell’agricoltura e non suo nemico?

In effetti i terreni che hanno perso fertilità richiedono molti anni, anche decenni, di cure per la loro ripresa, con aggiunta di materia organica che si decompone lentamente, come trucioli, compost o digestato da biogas. Interventi che sono difficili perché in tutto questo periodo devono essere lasciati a riposo, togliendo all’agricoltore del reddito.

Si potrebbe pensare invece a una campagna di recupero di terreni ormai improduttivi, ripristinando la loro fertilità mentre ospitano impianti FV opportunamente dimensionati e strutturati, in grado di dare reddito al loro proprietario nel tempo necessario al recupero, per poi essere magari rimossi, anche in parte, e spostati in altre aree da “curare”.

Non si salverebbe così suolo agricolo e produzione solare?

Naturalmente il giurista Masini non ne vuole neanche sentire parlare, ripetendo che “il terreno lasciato incolto per far spazio al fotovoltaico a terra vede un progressivo e irreversibile deterioramento dovuto all’interruzione dell’equilibri microbiologici e idrici. E non sempre chi lo installa fornisce adeguate garanzie di rimozione degli impianti a fine ciclo”.

Molto più interessato invece l’agronomo Colantoni.

“Ovviamente – dice il professore dell’Università della Tuscia- il punto centrale è che la politica non dovrebbe vietare o permettere l’installazione di impianti solari, a prescindere dall’opinione di esperti che vadano sul territorio e decidano loro, area per area, se sia possibile installare FV, e in che quantità e forma”.

“Detto questo – dice – l’idea di usare il FV per dare reddito all’agricoltore, mentre si recupera la fertilità dei suoi suoli impoveriti potrebbe essere valida, calibrando sempre attentamente impianto e interventi da fare a secondo del clima e del terreno su cui intervenire. Bisognerebbe però prima fare una sperimentazione di questa tecnica, rifertilizzando un terreno impoverito con su installati varie configurazioni di pannelli FV, per vedere in quali casi la produzione energetica sia compatibile con il miglioramento del suolo, e se i risultati ottenuti siano migliori o peggiori di quelli con il terreno nudo”.

Naturalmente chiedere al governo fondi per questa ricerca, che potrebbe riabilitare il demone fotovoltaico, potrebbe essere vana.

Ma chissà che qualche associazione di produttori di energia solare non voglia aiutare Colantoni e l’Università della Tuscia a portare avanti lo studio: se i risultati fossero positivi non solo si smentirebbe la narrativa tossica del FV nemico dell’agricoltura, ma anzi si dimostrerebbe come la produzione di energia solare possa aiutare il mondo agricolo a recuperare tanto suolo, oggi inutilizzabile, per la produzione di cibo.

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