I prezzi bassi del petrolio fanno lievitare il deficit dei petro-Stati

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Atteso un deficit da 490 miliardi di dollari al 2023 per sei paesi del Golfo Persico. In sintesi le ultime analisi di S&P Global Ratings.

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Il 2020 è un anno molto difficile per i paesi produttori di petrolio, colpiti dall’emergenza coronavirus con tutti i suoi effetti dirompenti sull’economia globale, tra cui un calo considerevole dei prezzi del greggio.

Così S&P Global Ratings in una recente nota agli investitori ha focalizzato l’attenzione sui paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), l’organizzazione regionale che riunisce sei petro-Stati del Golfo Persico, cioè Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar.

Gli analisti si aspettano che il deficit dei governi centrali di queste sei nazioni raggiungerà un totale cumulato di 490 miliardi di dollari tra 2020 e 2023, come riassume il grafico seguente, tratto dalla nota online di S&P Global Ratings.

Il 55% di tale deficit, precisano gli esperti, riguarderà l’Arabia Saudita, seguita da Kuwait e Abu Dhabi con rispettivamente il 17% e 11% del deficit complessivo.

Nel 2020 il deficit globale dei sei paesi toccherà 180 miliardi di dollari, pari al 18% circa del Pil (una sessantina di miliardi e 5% del Pil nel 2019).

La situazione dovrebbe migliorare un po’ dal 2021, grazie alla ripresa dei prezzi petroliferi e alla riduzione del taglio alla produzione di greggio (taglio che era stato deciso dall’Opec+ per fronteggiare il crollo della domanda durante la pandemia da Covid-19).

S&P Global Ratings si aspetta prezzi medi del Brent intorno a 30 $ al barile per il resto del 2020, per poi salire a 50-55 $ nel 2021-2022, rispetto ai 64 $ al barile registrati nel 2019.

Più in generale, ricordiamo che secondo la IEA (International Energy Agency), già il prossimo anno il mercato petrolifero mondiale tornerà quasi sui livelli del 2019, con un rimbalzo della domanda – fatta eccezione per l’aviazione – dopo il crollo dei consumi nei mesi di lockdown.

La domanda globale di oro nero, scriveva la IEA nell’Oil Market Report di giugno, crescerà di 5,7 milioni di barili quotidiani nel 2021 (mb/d: millions of barrels per day), portando così il totale a 97,4 milioni di barili consumati ogni giorno, con un “buco” di circa 2,4 mb/d rispetto al livello della domanda registrato nel 2019 prima dell’emergenza coronavirus.

Intanto molte compagnie petrolifere hanno corretto al ribasso le loro stime sui prezzi futuri dei prodotti petroliferi. In prima linea c’è BP, che a giugno ha annunciato che taglierà 10.000 posti di lavoro motivando la decisione con la necessità di ridurre i costi operativi e le spese in conto capitale, nell’ambito di uno scenario di bassi prezzi e domanda energetica in calo.

In una nota, il colosso petrolifero inglese ha parlato di una media attesa intorno a 55 dollari al barile per il periodo 2021-2050 e di una svalutazione dei suoi attivi per 13-17 miliardi di dollari nel secondo trimestre 2020.

In altre parole, BP si aspetta di estrarre meno petrolio e gas rispetto ai piani di sviluppo precedenti la crisi da Covid-19. E con la svalutazione rende più concreto il rischio percepito di “stranded asset”, cioè impianti, risorse e infrastrutture (giacimenti, piattaforme offshore, pozzi petroliferi eccetera) che perderanno valore nei prossimi anni a causa della transizione energetica verso le fonti rinnovabili.

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