Cosa c’è dietro la decisione di BP di tagliare 10.000 posti di lavoro

Prezzi bassi del petrolio, riduzione dei consumi, profitti in calo, transizione energetica, più investimenti in rinnovabili: lo scenario in cui si sta muovendo un big delle fonti fossili.

ADV
image_pdfimage_print

C’era da aspettarsi un annuncio come quello arrivato ieri, lunedì 8 giugno, dall’amministratore delegato di BP, Bernard Looney.

Il colosso petrolifero inglese taglierà circa 10.000 posti di lavoro, molti dei quali entro la fine di quest’anno, ha dichiarato Looney in una nota condivisa online su Linkedin; la maggior parte dei posti persi, ha chiarito il numero uno della compagnia, riguarderà impieghi di ufficio.

Looney ha confermato la necessità di “reinventare” BP per trasformarla in una società a minori emissioni di carbonio (lower carbon); ricordiamo che a febbraio, appena preso il posto dell’ex amministratore delegato Bob Dudley, Looney aveva dichiarato che BP avrebbe puntato all’azzeramento delle emissioni nette di CO2 associate alle sue attività industriali entro il 2050.

Anche se i dettagli su come raggiungere il traguardo erano stati demandati a un piano industriale atteso per settembre 2020.

Poi la pandemia del Covid-19 ha rimescolato ancora di più le carte.

Con i prezzi così bassi del petrolio “stiamo spendendo molto, molto più di quello che ricaviamo”, ha affermato Looney nella nota (traduzioni nostre dall’inglese per le citazioni). “Sto parlando di milioni di dollari ogni giorno, con il risultato che il nostro debito netto è cresciuto di 6 miliardi di dollari nel primo trimestre”.

In sostanza, BP deve spendere meno: ecco perché Looney punta a ridurre i costi operativi per 2,5 miliardi di dollari nel 2021 e diminuire del 25% già nel 2020 le spese in conto capitale (capex).

Su scelte di questo tipo stanno pesando molteplici fattori, legati a doppio filo alla crisi dell’industria fossile che l’emergenza coronavirus ha contribuito ad acuire e accelerare.

Una nuova analisi di Carbon Tracker ha rivelato che in questo scenario di calo dei consumi energetici e maggiori rischi per gli investimenti in carbone, gas e petrolio, circa due terzi dei futuri profitti delle compagnie fossili sono a rischio, con migliaia di miliardi che andrebbero letteralmente in fumo nei prossimi anni.

Un dato interessante è emerso poi da una ricerca di Rystad Energy: in pratica, nel 2022 il capex annuale del solo eolico offshore in Europa sorpasserà il capex delle attività per l’estrazione di gas e petrolio in mare, come riassume il grafico sotto.

Quindi in Europa si spenderà di più per realizzare nuovi parchi eolici offshore (oltre 22 miliardi di dollari nel 2022) che per cercare altro gas e petrolio nei giacimenti marini (meno di 17 miliardi di $ alla stessa data).

Torniamo così alla principale considerazione fatta dalla IEA (International Energy Agency) negli ultimi rapporti sull’evoluzione dei mercati energetici e delle tecnologie pulite: i governi hanno la “storica” opportunità di rimuovere i sussidi ai combustibili fossili e destinare i nuovi finanziamenti dei piani di rilancio economico alle fonti rinnovabili.

In altre parole, bisogna stimolare nuova domanda nelle industrie colpite dalla crisi economica, ma lo stimolo deve arrivare con precisi vincoli ambientali e con finanziamenti capaci di accelerare la transizione verso le energie più pulite.

Un esempio arriva anche dalle politiche per il settore auto in Europa, indecise tra guardare al futuro (solo incentivi alle vetture elettriche) o compiere passi indietro, cioè estendere gli incentivi alle auto a benzina-diesel Euro 6 come hanno proposto alcuni esponenti di governo in Italia.

ADV
×