Le 60 banche più grandi del mondo dal 2016 a oggi hanno scommesso sulle fonti fossili 3,8 trilioni (cioè 3.800 miliardi) di dollari.
Investimenti fatti dunque dopo l’accordo di Parigi, quando già si sapeva che gran parte delle riserve di gas, petrolio e carbone andranno lasciate sotto terra, se vogliamo fermare il riscaldamento globale “ben al di sotto” dei 2 ºC e provare a limitarlo a 1,5 ºC, come ci si è impegnati a fare alla CoP 21.
Anzi, perfino in questo 2020 di recessione economica globale, i finanziamenti alle fossili sono stati più che nel 2016.
A denunciarlo è il report Banking on Climate Chaos 2021, realizzato da una vasta coalizione di Ong ambientaliste e giunto alla sua 12a edizione (documento in basso).
Il rapporto prende in considerazione 60 tra le più grandi banche del mondo e documenta un allarmante scollamento tra il consenso scientifico globale sul cambiamento climatico e quello che gli istituiti finanziari continuano a fare, come riassunto nel grafico qui sotto:
Nell’anno da poco concluso, nonostante la batosta economica della pandemia che ha portato a una riduzione generale del finanziamento alle fossili di circa il 9%, le 60 maggiori banche del mondo hanno aumentato i loro “investimenti sporchi”, emerge dal report.
Quelli nelle 100 società Oil & Gas con maggiori programmi di espansione hanno attirato il 10% di capitali in più dell’anno precedente e un totale di 1,5 trilioni di dollari negli ultimi 5 anni.
Tra i progetti finanziati da queste banche molti sono particolarmente controversi anche per la stessa discutibile categoria degli investimenti in gas, petrolio e carbone.
Ad esempio la contestatissima estensione dell’oleodotto Line 3 che porta il petrolio da sabbie bituminose dal Canada agli Usa o l’espansione del fracking sulla terra dei Mapuche nella Patagonia argentina, sono solo due dei quasi 20 casi di studio presentati nel rapporto curato da Rainforest Action Network, BankTrack, Indigenous Environmental Network, Oil Change International, Reclaim Finance e Sierra Club e sostenuto da oltre 300 organizzazioni di 50 paesi in tutto il mondo.
I maggiori motori globali delle emissioni nel 2020, come si vede dalla lista qui sotto (graduatoria completa nel report), continuano a essere le banche statunitensi.
JPMorgan Chase, si denuncia, rimane “la peggiore banca fossile del mondo”: anche se si è recentemente impegnata ad allineare i propri investimenti con l’accordo di Parigi, continua a finanziare sostanzialmente senza restrizioni i combustibili fossili. Dal 2016 al 2020, tra prestiti e sottoscrizioni, JPMorgan Chase ha puntato quasi 317 miliardi di dollari sulle fonti nemiche del clima, ben il 33% in più di Citi, seconda classificata per contributo al disastro.
Tra gli altri istituti di credito che si attirano una menzione negativa speciale: RBC è il peggiore in Canada, Barclays il peggiore nel Regno Unito, BNP Paribas il peggiore nell’Ue, MUFG il peggiore in Giappone e Bank of China il peggiore in Cina.
BNP Paribas è anche la quarta peggiore banca fossile al mondo nel 2020, con 41 miliardi di dollari in finanziamenti fossili lo scorso anno, un enorme aumento del 41% rispetto alla sua attività del 2019. Significa che il più grande aumento assoluto dei finanziamenti fossili nel 2020 è arrivato da BNP Paribas, nonostante i forti impegni politici della banca che limitano i finanziamenti per petrolio e gas non convenzionali.
Tra le italiane, da citare Unicredit, che nonostante abbia ancora molti investimenti in fossili (35esima su 60), è prima della classe per il cambio di direzione nella policy.
Il rapporto esamina, infatti, anche gli impegni presi dagli istituti di credito e li giudica con severità: in generale sono “insufficienti e non in linea” gli obiettivi di Parigi, si concentrano spesso sull’obiettivo “lontano e mal definito” della neutralità carbonica al 2050 o sulla limitazione dei finanziamenti per i combustibili fossili non convenzionali.
Un grosso limite, poi, è che le policy bancarie attuali sono più stringenti per quanto riguarda il finanziamento diretto relativo ai progetti, ma i finanziamenti diretti ai progetti rappresentano solo il 5% degli investimenti totali in fonti fossili analizzati dal rapporto.
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