Gli investimenti a rischio delle aziende oil&gas. Il caso del Mare del Nord

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Diverse compagnie fossili potrebbero perdere il 60% o più dei loro flussi di cassa nei prossimi anni, a causa degli stranded asset. Lo rivela il nuovo rapporto di Carbon Tracker.

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Le aziende oil&gas rischiano di perdere moltissimi soldi con l’avanzare della transizione energetica pulita.

Un nuovo rapporto di Carbon Tracker, think tank indipendente con sede a Londra, che analizza gli impatti finanziari dei cambiamenti climatici, torna a parlare degli stranded asset legati ai combustibili fossili, con un focus sugli investimenti di dieci società attive nell’estrazione di petrolio e gas nel Mare del Nord.

Sono compagnie che potrebbero veder sfumare il 60% o più dei loro flussi di cassa nei prossimi anni, a causa di investimenti divenuti improduttivi.

Gli stranded asset sono letteralmente i “beni incagliati” delle compagnie energetiche fossili: impianti e infrastrutture (pozzi, piattaforme di estrazione, gasdotti, oleodotti, raffinerie) che rimarranno sottoutilizzati per via della minore domanda di petrolio e gas e della pressione competitiva esercitata dalle tecnologie a basse emissioni, come l’eolico e il solare.

Il rapporto, intitolato Private Eyes Wide Shut – Private Equity Investments in Oil and Gas at Risk in the Energy Transition, identifica 10 società sostenute da private equity che operano nel Mare del Nord (qui tra parentesi gli investitori che le sostengono): NEO Energy, Sval e Vår Energi (HitecVision); Harbour Energy e Repsol (EIG); Pandion Energy e Star Energy Group (Kerogen Capital); Neptune Energy (Carlyle e CVC Capital Partners); ONE-Dyas (AtlasInvest); Wellesley Petroleum (Bluewater).

Gli analisti stimano che otto aziende con progetti esistenti o approvati rischierebbero di perdere tra il 63% e il 100% del loro flusso di cassa aggregato tra il 2024 e il 2030, in una transizione a ritmo moderato in linea con un aumento della temperatura globale di 1,7 °C.

A spiegare il perché è l’analista di Carbon Tracker, Maeve O’Connor: “il Mare del Nord offre un caso di studio sui rischi che i produttori upstream sostenuti da private equity devono affrontare sia nei nuovi giacimenti che in quelli esistenti”.

Le aziende, infatti, “stanno inseguendo barili di petrolio marginali e più costosi in un contesto di costi già difficile. La probabilità che questi barili dal costo più elevato rimangano economici in uno scenario di rapida transizione sembra diminuire”.

Il punto è che molte aziende stanno considerando solo gli impegni climatici esistenti nei loro investimenti, ipotizzando una transizione energetica lenta, coerente con un aumento delle temperature di 2,4 °C, quindi totalmente sopra gli obiettivi degli accordi di Parigi (1,5 °C, target in realtà quasi impossibile).

Le società di private equity, evidenzia poi il documento, ottengono la maggior parte del loro capitale da investitori come compagnie assicurative, fondi pensione e gestori patrimoniali. Il rapporto avverte però che la produzione del Mare del Nord è in declino da due decenni e i suoi giacimenti maturi stanno raggiungendo la fine della loro vita produttiva.

Le major petrolifere e le utility hanno svenduto i loro asset e le società esaminate da Carbon Tracker, sostenute dalle 10 firme di private equity, ora controllano circa il 13% di tutta la produzione.

Secondo Mike Coffin, responsabile del settore Oil, Gas & Mining di Carbon Tracker, “la transizione energetica sta accelerando ed eroderà la domanda di petrolio e gas, con gravi ripercussioni sulla salute finanziaria di molte compagnie fossili”.

Le società di private equity che investono in tali compagnie, stanno facendo una pesante scommessa perché potrebbero rimanere con aziende il cui valore è crollato, senza che nessun acquirente sia disposto a rilevarle.

Peraltro, la strategia di aumentare la produzione oil&gas da nuovi giacimenti è sempre più rischiosa.

Difatti, investire per prolungare la durata dei giacimenti oil&gas esistenti o svilupparne di nuovi, è costoso e la nuova produzione potrebbe richiedere dai 3 ai 5 anni per entrare in funzione, rimanendo esposta alle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime.

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