Germania, il Parlamento spiana la strada alla carbon tax potenziata

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Si parte nel 2021 con 25 euro per tonnellata di CO2, per poi salire gradualmente a 55 euro. Trasporti e riscaldamento nel mirino.

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Dal Bundestag, il Parlamento tedesco, è arrivato l’ultimo semaforo verde che farà scattare la nuova tassa sulla CO2 nel 2021.

I deputati, infatti, hanno approvato la carbon tax da 25 euro per tonnellata di anidride carbonica, che dal primo gennaio del prossimo anno colpirà le emissioni inquinanti dei carburanti fossili utilizzati nel riscaldamento e nei trasporti.

E negli anni successivi la carbon tax salirà fino a 55 € ton/CO2 entro il 2025, mentre dal 2026 il prezzo finale di ogni tonnellata di anidride carbonica sarà determinato tramite aste, in un corridoio di 55-65 € ton/CO2.

Ricordiamo che lo scorso maggio il governo tedesco aveva raggiunto l’accordo politico sulla carbon tax potenziata – la proposta originaria di Berlino era di partire con 10 euro per tonnellata di CO2 – grazie soprattutto alle pressioni dei Verdi, che hanno sempre spinto per elevare il prezzo di partenza della tassa, in modo da rendere più efficace il nuovo meccanismo fiscale.

Come conseguenza della carbon tax, secondo il ministero dell’Ambiente, il prezzo di un litro di benzina aumenterà di 7 centesimi lordi il prossimo anno, mentre olio combustibile e gasolio vedranno incrementi pari a 8 centesimi lordi/litro.

Per il gas naturale, l’aumento previsto è di 0,5 centesimi per kWh.

E con i soldi della carbon tax, spiegava il governo, si andrà a diminuire la sovrattassa EEG che pesa sulle bollette elettriche e serve a finanziare lo sviluppo delle energie rinnovabili.

Berlino punta così a penalizzare l’uso di carburanti fossili in due settori, trasporti e riscaldamento domestico, che ancora dipendono in massima parte dal gas e dai prodotti petroliferi.

Il dibattito Ue sulla tassa alla frontiera per la CO2

Intanto, più in generale, l’Europa punta a definire nuove imposizioni fiscali sulla CO2, regolate dal principio “chi inquina di più paga”.

Buona parte del dibattito su questo tema si sta concentrando sul carbon border adjustment (CBA), in pratica una tassa da calcolare sul contenuto di CO2 dei beni importati nel nostro continente.

Il CBA, infatti, sarebbe un meccanismo fiscale con cui colpire le emissioni di CO2 associate a determinati prodotti importati nell’Unione europea, fabbricati in paesi dove sono in vigore standard antinquinamento più deboli in confronto a quelli Ue.

E questa tassa alla frontiera potrebbe diventare uno dei pilastri con cui finanziare il Recovery Fund, il super-piano di aiuti economici per uscire dai combustibili fossili e favorire gli investimenti in fonti rinnovabili.

Tuttavia, per adottare una tassa alla frontiera sulla CO2, è necessario ripensare alcuni ingranaggi del mercato ETS (Emissions Trading Scheme), il mercato europeo delle quote di CO2.

L’ETS, ricordiamo in breve, prevede che le industrie più inquinanti ricevano ogni anno un certo numero di free CO2 allowances, quote gratuite di CO2 che permettono loro di proseguire le attività, senza dover pagare per l’inquinamento che stanno producendo.

Lo scopo di tale misura è prevenire il cosiddetto carbon leakage: l’eventuale delocalizzazione di quelle industrie in paesi extraeuropei con minori restrizioni ambientali.

Però non sarebbe possibile utilizzare, allo stesso tempo, il mercato ETS, come esiste oggi, e una nuova tassa alla frontiera sulla CO2: ci sarebbe il rischio, infatti, di assicurare un doppio vantaggio alle industrie europee rispetto ai concorrenti stranieri, sotto forma di quote di CO2 gratuite (con l’ETS) e sotto forma di tassa sulle importazioni (con la carbon border tax).

Un’opzione sul tavolo è di estendere il mercato ETS alle importazioni di determinati beni, anziché varare una tassa alla frontiera.

Estendere l’ETS obbligherebbe gli importatori ad acquisire quote di CO2, ma ciò avrebbe delle implicazioni sul funzionamento generale del mercato: ad esempio, sui prezzi delle singole quote e sulla disponibilità di queste ultime.

Mentre una tassa alla frontiera vera e propria andrebbe armonizzata con le regole dell’organizzazione del commercio internazionale (WTO), facendo leva sulle eccezioni ambientali che potrebbero consentire di violare il principio generale di non-discriminazione (in questo caso, tra prodotti a basso/elevato contenuto di CO2).

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