Il fotovoltaico è decisivo o no per il taglio delle emissioni?

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Facciamo il punto sul reale impatto carbonico della produzione dei moduli fotovoltaici nel mondo e in Cina.

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Secondo il rapporto della IEA (International Energy Agency) “Net zero by 2050”, il fotovoltaico rappresenterà la principale tecnologia di generazione elettrica a livello mondiale.

È giusto quindi chiedersi quale sia l’impatto carbonico della produzione dei moduli fotovoltaici. Recentemente è sorta infatti una polemica sulle emissioni legate alla produzione dei moduli cinesi, considerato che il 70% della produzione mondiale fotovoltaica proviene dalla Cina e il ruolo importante che ha il carbone nella generazione elettrica di quel Paese.

È chiaro che con l’aumento della quota di elettricità verde, le emissioni climalteranti legati alla lavorazione dei moduli solari si ridurrà progressivamente.

In realtà, molti studi stimano l’impatto complessivo in termini di emissioni climalteranti del fotovoltaico in relazione al luogo di produzione dei moduli e alla località in cui questi vengono installati: i risultati parlano di un livello di emissioni chiaramente superiore per quelli realizzati in Cina, ma comunque 5-15 volte inferiori rispetto a quello delle centrali termoelettriche (vedi Ragimov S., Why Should Leverage U.S Solar’s Carbon Advantage, Climate Leadership Council, 29 aprile 2022).

Nel grafico l’intensità carbonica della produzione di moduli fotovoltaici in Cina e negli Usa (fonte: Climate Leadership Council).

In effetti, la produzione nella UE di moduli fotovoltaici in silicio comporta emissioni di CO2 almeno del 40% inferiore rispetto ai moduli fabbricati in Cina (vedi: Fthenakis V., Leccisi E., Updated sustainability status of crystalline silicon-based photovoltaic systems: Life-cycle energy and environmental impact reduction trends, Prog Photovolt Res Appl. 2021;1–10.)

Va comunque detto che l’intensità carbonica della produzione elettrica cinese si è ridotta (-19% tra 2007 e 2021) e continuerà a calare con l’aumento della produzione da rinnovabile, metano e nucleare.

Il cambiamento del mix energetico utilizzato e il continuo aumento dell’efficienza dei processi produttivi porteranno quindi ad un abbassamento dell’intensità carbonica del comparto solare cinese. In particolare è incredibile il miglioramento che si è registrato in Cina tra il 2015 e il 2020, con emissioni climalteranti legate al processo produttivo di sistemi solari praticamente dimezzate.

Nel grafico il calo tra il 2015 e il 2020 delle emissioni climalteranti (Global Warming Potential) connesse alla produzione di sistemi solari in silicio monocristallino (tecnologia che rappresenta ormai larga parte del mercato mondiale) nel contesto elettrico cinese. Analizzando solo l’impatto dei moduli il GWP si riduce a 750 (Fonte: Fthenakis V., Leccisi E.).

Guardando invece globalmente, un’analisi effettuata su quasi diecimila impianti solari utility scale nel mondo ha consentito di valutare un impatto carbonico medio di 58,7 g CO2-eq/kWh, decisamente menoalmeno di sei volte – rispetto alle emissioni dell’elettricità generata da centrali fossili.

Infine, c’è un altro elemento interessante da considerare. A seguito del Carbon Border Adjustment Mechanism, cioè la tassazione prevista per le future importazioni in Europa in relazione al loro contenuto di carbonio, le imprese che vorranno vendere sul mercato UE avranno tutto l’interesse a ridurre la loro impronta di carbonio.

Questo spiega perché un numero crescente di aziende fotovoltaiche cinesi stia puntando ad un’alimentazione da fonti rinnovabili.

È significativo il fatto che tre dei maggiori produttori cinesi di moduli solari del mondo (Longi, JinkoSolar, Hanwha Q-Cells) abbiano sottoscritto l’accordo RE100, che prevede un obiettivo di utilizzare il 100% di elettricità rinnovabile per le loro attività.

Nel 2021, Longi è stato il primo produttore fotovoltaico mondiale con 38 GW, mentre JinkoSolar si è attestata sui 22 GW. Quindi, a queste due società impegnate a “decarbonizzare” la loro produzione solare è attribuibile larga parte dei 100 GW esportati dalla Cina nel 2021.

Peraltro, JinkoSolar l’anno scorso ha utilizzato il 41% di elettricità rinnovabile e punta al 100% entro il 2025. E il suo impianto in costruzione di Chuxiong (da 20 GW/anno) sarà alimentato da elettricità rinnovabile al 100%.

Certo, va ricordato che il 45% del polisilicio mondiale, materiale base per tutta l’industria solare, proviene dallo Xinjiang, una regione criticata per il poco rispetto dei diritti umani e per il largo utilizzo del carbone a basso costo nella generazione elettrica.

Ma, oltre a un debole risveglio dell’Occidente nella produzione di polisilicio, è significativo il cambio di prospettive industriali in Cina. Infatti si punta ad investire in altre provincie, che dispongono di rinnovabili a basso costo, e a superare la produzione dello Xinjiang, evitando in tal modo anche i divieti di importazione degli Usa.

Peraltro, infine, l’innovazione tecnologica sta consentendo di ridurre la domanda di energia necessaria nella produzione di polisilicio e di ridurre lo spessore dei wafer di silicio.

E un recentissimo rapporto della IEA afferma con chiarezza “i pannelli solari devono funzionare solo per 4-8 mesi per compensare le loro emissioni di produzione (energy pay-back time). Questo periodo di ammortamento si confronta con la durata media del pannello solare di circa 25-30 anni”.

Articolo pubblicato nel report di Symbola “GreenItaly 2022”

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