Dopo gli eventi atmosferici estremi di questi ultimi giorni – dall’acqua alta prossima ai massimi storici a Venezia agli effluvi di fango a Matera – il governo italiano ha assicurato che metterà il dissesto idrogeologico al centro dell’attenzione nelle sue prossime riunioni.
Su quali basi però e forte di quali procedure il governo affronterà il problema di frane e inondazioni in Italia è più difficile da dire. È invece purtroppo facile essere abbastanza pessimisti.
Non più di due settimane fa, la Corte dei Conti, nella sua relazione circa l’utilizzo del fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico, scriveva che “l’approccio emergenziale, da un lato e, dall’altro, le riforme continue della governance, conseguenti alla necessità di trovare soluzioni straordinarie alle criticità via via emerse, le procedure lente di assegnazione delle risorse e altre vischiosità procedimentali, hanno reso in larga parte inefficace l’intervento pubblico nazionale nel settore”.
Da parte sua, il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha detto che il governo “ha già stanziato 315 milioni di euro nel 2019 per finanziare progetti esecutivi di tutela del territorio dal dissesto idrogeologico e prevede 263 interventi in tutte le regioni”. Opere che il ministero ha definito di “estrema urgenza e indifferibilità, che hanno già ottenuto l’avallo dei commissari straordinari per il dissesto idrogeologico.”
Fatte salve le buone intenzioni del governo, sembra l’ennesimo ripetersi dell’approccio emergenziale lamentato dalla Corte dei Conti. Un approccio emergenziale che poi però il più delle volte non si traduce in un dispiegamento di forze organico ed efficace.
Secondo il rapporto della Corte, infatti, “le risorse effettivamente erogate alle Regioni, a partire dal 2017, rappresentano… solo il 19,9% del totale complessivo in dotazione al Fondo,” pari a 100 milioni di euro.
Se sul lato degli interventi e delle risorse già destinate l’operatività e l’efficacia dello stato ha lasciato finora a desiderare, le cose, se possibile, sembrano andare ancora peggio sul lato della programmazione di ampio respiro per il futuro.
Nel giugno 2015, furono approvate le linee guida di una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (SNAC) e nel maggio 2016 fu avviata l’elaborazione del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC). Dalle consultazioni pubbliche del luglio 2017, però, non si è saputo praticamente più nulla del piano che concretamente l’Italia dovrebbe attuare per contrastare la crisi climatica, di cui il dissesto idrogeologico è effetto e concausa.
Secondo Sergio Castellari, un fisico dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) attualmente distaccato presso l’Agenzia Europea per l’Ambiente (AEA), per evitare di reagire alle urgenze in modo puramente emergenziale e contrastare efficacemente nel lungo termine il degrado idrogeologico e la crisi climatica bisogna aumentare le capacità decisionali dei tecnici, coordinandone l’azione ai livelli apicali dello stato, a livello cioè di Presidenza del Consiglio, un po’ sulla falsa riga del Dipartimento della Protezione Civile.
In una parola, governance: bisogna potenziare l’insieme dei princìpi, delle regole e delle procedure che riguardano la gestione della mitigazione e dell’ adattamento a livello nazionale.
“Manca una forte e chiara governance nazionale climatica, in particolare sull’adattamento e la mitigazione. Nel caso dell’adattamento, questa governance, che potrebbe essere un’unità sotto la presidenza del Consiglio, potrebbe coordinare, monitorare, verificare l’efficacia delle azioni di adattamento che devono essere attuate a livello regionale e comunale, però con un consistente e coerente finanziamento nazionale. Questa governance deve essere non solo per il dissesto idrogeologico, ma anche per tutte le altre calamità naturali, come le ondate di calore, le siccità, l’innalzamento del livello del mare, i cui disastri possono essere ridotti tramite efficaci azioni di adattamento preventivo,” ha detto Castellari. “Un modello potrebbe essere quello del Programma Delta in Olanda, che gestisce l’adattamento e la resilienza nel campo delle risorse idriche e della difesa contro le inondazioni”.
Potremmo chiamarla un’unità “Italia Clima” sotto la Presidenza del Consiglio, che nel nostro paese manca, ha aggiunto Castellari, secondo cui è necessario che ci sia un “cervello” a livello centrale che abbia la forza di coordinare le azioni, la capacità di parlare da pari a pari con la politica e di muoversi quindi con più efficacia.
Nel caso del Programma Delta olandese, dice Castellari, si tratta di un “programma ben finanziato negli anni, con una visione strategica molto in là nel tempo, e un coordinatore che ha lo status di un ministro, capace quindi di porsi allo stesso livello dei politici.”
Quel che sembra certo è che l’incrocio fra la predisposizione dell’Italia fisica alle frane e la propensione dell’Italia politica alle soluzioni tampone sia sempre più pericoloso e sia necessario un cambio deciso di direzione.
Lo indica una serie impietosa di numeri.
Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), l’Italia è il paese europeo maggiormente interessato dalle frane: oltre 620.000 delle quasi 900.000 frane censite negli anni in Europa, infatti, sono avvenute nel nostro paese.
Vale a dire: il 7,9% dell’Italia è franato in passato – 23.700 kmq del nostro paese smottati, scivolati via nel corso degli ultimi secoli.
La grande diffusione delle frane in Italia è causata in buona parte dalle caratteristiche geologiche e morfologiche del nostro territorio, che è per il 75% montano-collinare.
Ma negli ultimi decenni, i fattori antropici, come i tagli stradali, gli scavi, i sovraccarichi dovuti agli edifici e la copertura del suolo naturale hanno assunto un ruolo sempre maggiore nel predisporre il suolo alle frane, contribuendo ad aumentarne il numero a “qualche migliaia l’anno attualmente,” ha detto Carla Iadanza di ISPRA, da poche centinaia dei decenni precedenti, come si può vedere in questo grafico.
Ancora più significativi dei numeri sulle frane sono quelli sui costi umani e finanziari.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), i morti per frane e inondazioni in Italia sono stati l’anno scorso 38 e oltre 4.500 gli evacuati e senza tetto.
Negli ultimi 50 anni, i morti sono stati 1.836 e gli evacuati e senza tetto oltre 321.000, con danni per alluvioni e siccità che negli ultimi 10 anni hanno superato 14 miliardi di euro, tra perdite della produzione agricola nazionale e danni alle strutture e alle infrastrutture nelle campagne.
Oltre al suolo che cade c’è la questione dell’acqua che sale.
Come abbiamo raccontato in un precedente articolo, sette nuove aree costiere italiane sono a rischio inondazione per l’innalzamento del Mar Mediterraneo, sia a causa dei cambiamenti climatici che delle caratteristiche geologiche della nostra penisola.
Secondo l’ENEA, l’Italia rischia di “perdere” decine di chilometri quadrati di territorio entro fine secolo.
Una perdita di vite umane, risorse e territorio che esige non solo reazioni emergenziali del momento ma soprattutto il coraggio di un programma organico di mitigazione di lungo termine, tecnicamente del tutto alla nostra portata.