Crisi climatica: mitigare non basta, dobbiamo investire nelle politiche di adattamento

La forte crescita delle rinnovabili è ancora troppo lenta rispetto all’accelerazione della crisi climatica. Siccitià ed eventi metereologici estremi sono ormai realtà e per questo servono investimenti pubblici nelle politiche di adattamento.

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“Non siamo sulla buona strada per rispettare l’Accordo di Parigi”, riassumeva Francesco La Camera, direttore dell’Agenzia Internazionale per le fonti rinnovabili (IRENA) – alla quale aderiscono 167 paesi, quelli della UE inclusi – nel presentare il primo volume del “World Energy Transitions Outlook 2023”, cioè le previsioni della transizione energetica a livello mondiale.

“Bisogna triplicare ogni anno e fino al 2030 la nuova potenza di energia pulita, aggiungendo mille gigawatt all’anno nel mondo, se si vuole mantenere entro 1,5 °C l’incremento della temperatura al 2030».

Questa, in estrema sintesi, la ricetta dell’Outlook di IRENA, che indica elettrificazione ed efficienza come fattori chiave per la transizione, resi possibili grazie alle energie rinnovabili, all’idrogeno pulito e alla biomassa sostenibile.

È vero che “il mondo si è attrezzato per aggiungere quest’anno altri 440 GW di capacità di energie rinnovabili. Un grande balzo rispetto allo scorso anno e il doppio del 2019. Solare e vento guidano l’emergere dell’economia delle nuove energie”, ha affermato Fatih Birol, il direttore della IEA (International Energy Agency), ma questi rilevanti risultati non sono ancora, secondo le previsioni di IRENA, all’altezza dell’obiettivo prefissato.

Peggio de “Achille piè veloce” all’inseguimento della lenta tartaruga, l’economia delle fonti rinnovabili, pur esplosiva, appare lenta rispetto all’accelerazione della crisi climatica.

Magra ma non trascurabile consolazione è che il presidente designato della COP28, Sultan al-Jaber, chiede di triplicare le energie rinnovabili entro il 2030: “abbiamo bisogno della volontà politica per un rapido aumento delle  rinnovabili. Per raggiungere i nostri obiettivi per il 2030 – aggiunge – abbiamo bisogno di un’azione urgente per accelerare l’espansione delle infrastrutture di rete, ridurre i tempi di autorizzazione e tagliare il costo del capitale nei mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo”.

Anche noi ci siamo esercitati per tanti anni sugli scenari energia-clima, ma più che andare a rivedere in dettaglio le previsioni di IRENA, ci sembrerebbe scioccamente utopistico non condividere la dichiarazione di La Camera, soprattutto da quando, non molto tempo fa, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha ribadito: “Siamo su un’autostrada per l’inferno, col piede sull’acceleratore2.

Allora, se le performance necessarie per la “mitigazione” sono difficili, bisogna andare ad accelerare sull’altro parametro fondamentale dello scenario: l’adattamento rispetto ai cambiamenti climatici. Quello che in Italia, da Ischia alla Romagna, batte  luttuosamente il passo.

Che sta facendo la Ue, in materia? La EEA, l’agenzia europea per l’ambiente, ha prodotto nel marzo scorso: “Assessing the costs and benefits of climate change adaptation”, una sintesi dei risultati di vari modelli per valutare il confronto costi-benefici nelle strategie di adattamento, incluso il non far nulla.

E il primo messaggio chiave del briefing della EEA è: “La mancanza di un’azione di adattamento è costosa. A dispetto degli sforzi per la mitigazione e l’adattamento, le perdite economiche derivanti dagli eventi estremi meteorologici e climatici hanno superato i mille miliardi di euro tra il 1980 e il 2021. Ciò segnala l’urgenza di velocizzare la realizzazione di misure di adattamento”.

Viene poi rivolto un secondo messaggio chiave: “Le azioni di adattamento sono efficienti quando il rapporto benefici-costi supera il valore 1,5. Le misure di adattamento al di sotto di questo valore richiedono una più accurata considerazione, a causa dell’incertezza dei loro costi economici in rapporto ai benefici”.

Nel terzo messaggio chiave si sottolineano gli effetti collaterali delle azioni di adattamento sull’economia in generale, in quanto riducono l’impatto dei rischi naturali – un aspetto di per sé importante – come pure apportano benefici per la biodiversità, la qualità dell’aria, la gestione delle acque dolci, le riduzioni delle emissioni climalteranti, la salute e il benessere delle persone.

Seguono altri punti chiave di tipo più “tecnico”, l’ultimo dei quali vale la pena riportare: “Le attuali conoscenze non permettono un facile confronto costi-benefici delle azioni di adattamento nei vari settori economici. C’è bisogno di un miglioramento metodologico dell’analisi benefici-costi“.

Al di là delle considerazioni metodologiche per migliorare l’analisi costi-benefici, quanto spende l’Europa in adattamento? “Non c’è un numero singolo che rifletta l’investimento totale in adattamento in Europa” è la non confortante risposta del briefing dell’EEA, diverse le metodologie e i settori analizzati. Diversi gli impegni e i risultati.

Per esempio, riferendosi alle autorità che hanno firmato il Patto tra i Sindaci per l’energia e il clima, il 20% tra i primi investitori, con un budget medio totale al di sopra dei 51 milioni di euro, aveva predisposto una media di 16 piani di azione per l’adattamento, con 5 completati, mentre il 20% degli ultimi, con un budget totale medio di 16mila euro, avevano una media di 10 piani d’azione, di cui due completati.

Anche a guardare cifre molto più rilevanti rispetto a quelle di azioni locali, si sta molto lontani dalle stime degli investimenti per l’adattamento a livello Ue: intorno ai 40 miliardi di €/anno per lo “scenario +1,5 °C”, mentre nello “scenario +2 °C” si sale, a conferma dell’analisi benefici-costi, a 80-120 miliardi di €/anno. Se poi l’incremento della temperatura raggiungesse i 3-4 °C, due istituti di ricerca, il JRC (2020) e il COACCH (2022), hanno stimato necessario un investimento di 175-200 miliardi di euro l’anno. 

Insomma, mentre i ghiacciai alpini si sciolgono, la siccità avanza come uno dei quattro cavalieri del climate change, gli eventi meteo estremi diventano realtà quotidiana, la Ue deve spingere al massimo sull’adattamento, perché contempla azioni di carattere e investimento pubblico più programmabili, mentre gli investimenti sulle rinnovabili, divenute oggetto prelibato per il mercato, possono contare assai di più sull’apporto privato.

Come ai tempi del Covid venne dalla Ue una risposta, col Recovery Fund, di 2000 miliardi di euro sull’arco di cinque anni per l’economia, per l’industria e i bisogni sociali, così, oggi, quando +1,5 °C è ormai alle porte, si devono rendere disponibili quegli 80-120 miliardi di euro all’anno per restare entro +2 °C. Pena, spendere più del doppio in uno scenario che rende bazzecola la tragedia ucraina.

Non sarà facile, considerate le abituali ritrosie dei Paesi “virtuosi” ma stupidi, l’ossessione tedesca per l’inflazione associata all’incremento della spesa pubblica, l’inveterata attitudine della Lagarde a fare danni economici e sociali come ai tempi del “Washington Consensus” (ma ci provò anche ai tempi del Covid, bacchettata all’epoca dalla von der Leyen). Va reso merito al “populista” Conte di aver condotto, durante il Covid, il confronto nella Ue con adeguata durezza contro chi non vuole politiche comuni di economia e di solidarietà.

Uno scontro che vide scendere in prima linea Mario Draghi, all’epoca presidente della BCE, che ricordò al falco Jedemans, direttore della Deutsche Bank, l’esoso avanzo primario tedesco; uno scontro che prima portò al topolino Sure, un primo strumento di solidarietà europea da 100 miliardi di euro per sostenere lavoratori e imprese; e poi, sotto i colpi micidiali della pandemia, alla montagna del Recovery Fund.

Saprà il governo Meloni prendere innanzitutto atto della gravità della crisi climatica e della necessità di accelerare come non mai sulle politiche pubbliche di adattamento; e poi, condurre con ugual risolutezza la battaglia nella Ue?

Va riconosciuto alla Meloni di essere stata la premier che meglio è riuscita a propagandare il colossale tema dell’immigrazione come un interesse di tutta la Ue, e non solo dei Paesi di prima accoglienza. La crisi climatica e il suo dramma non sono nelle corde di un governo in cui non mancano scettici, se non negazionisti, più i soliti cretini di complemento.

C’è però da augurarsi un’inversione di rotta culturale e un’azione politica conseguente. Per il bene dell’Italia, per il bene di tutta l’Unione europea.


L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2023 della rivista QualEnergia con il titolo “Andamento lento”.

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