Coronavirus, prezzo del petrolio e futuro della transizione energetica

Bassi prezzi del barile protratti a lungo potrebbero avere ripercussioni sull'industria petrolifera o anche sulle politiche in favore delle rinnovabili? Ne parliamo con Ugo Bardi dell'Università di Firenze.

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Il Covid19 non sta solo uccidendo persone, intasando i sistemi sanitari, obbligando tutti a tapparsi in casa e rovinando interi settori economici: sta anche, inevitabilmente, stravolgendo il mondo dell’energia.

Anche se la produzione energetica, essendo strategica, va avanti come prima, molti piani per l’installazione di nuovi impianti a rinnovabili sono nel limbo dell’incertezza. Per esempio, sia per il rallentamento dell’industria cinese dei pannelli che per l’impossibilità di ottenere i permessi, per la chiusura degli uffici, si va verso lo stop all’installazione di nuovo solare in Germania.

E per quanto riguarda l’Italia anche QualEnergia.it, segnalerà i problemi incontrati dagli operatori.

Ma a parte le difficoltà immediate, che potrebbero rientrare in qualche mese, se tutto va bene, quale potrebbe essere l’effetto sul lungo termine di questa crisi, che, da sanitaria, diventerà certo economica e forse anche peggiore di quella del 2008, con, prevede l’Organizzazione Mondiale del Lavoro, con decine di milioni di disoccupati e cali del Pil nelle varie nazioni, anche a doppia cifra.

Primo segno dei problemi di lungo termine è forse l’improvviso collasso del prezzo del petrolio, passato in meno di un mese da 55 fino a 20 dollari al barile.

Un prezzo che, oltre alle conseguenze del mancato accordo sui tagli alla produzione fra Russia e Arabia Saudita, sta probabilmente riflettendo sia gli attuali cali della domanda, dovute alle restrizioni al movimento in sempre più paesi, sia l’aspettativa della suddetta crisi economica prossima ventura, con i relativi tagli attesi alla richiesta di energia.

In passato periodi di petrolio a basso costo hanno prodotto grosse difficoltà per le alternative. Basti ricordare i programmi nucleari lanciati al tempo delle crisi petrolifere degli anni ’70, ridimensionati bruscamente quando il prezzo del greggio crollò negli anni ‘80-90.

Succederà lo stesso adesso per la transizione alle rinnovabili? L’urgenza dei problemi economici, farà passare in secondo piano quelli climatici e ambientali? O, al contrario, sarà proprio questo il momento in cui la svolta accelererà, visto che ormai la strada verso le energie rinnovabili è impostata, i governi si sono impegnati a seguirla e persino molte società petrolifere, Eni compresa, hanno annunciato un graduale abbandono del business tradizionale?

In fondo l’enorme lavoro necessario a compierla può fare da volano al rilancio economico, mentre la volatilità del prezzo dei fossili rende l’investimento in rinnovabili, ormai competitive con carbone, gas e greggio, molto più sicuro.

Le opinioni su questo tema, sono ovviamente le più diverse, e nei prossimi giorni ne raccoglieremo alcune.

Cominciamo con quella del professor Ugo Bardi, che insegna chimica-fisica all’Università di Firenze, e che è noto per il suo lavoro sul mondo dell’energia e sul “Picco del petrolio”.

Professor Bardi, che conseguenze potrebbe avere il brusco calo del prezzo del greggio su quella industria?

«Al momento è ovviamente difficile dire, tutto dipende da quanto durerà questa riduzione. L’industria petrolifera non ragiona infatti su orizzonti di giorni o mesi, ma su molti anni, dovendo recuperare miliardi investiti in giacimenti dalla vita multidecennale. Non è quindi detto che se il prezzo del barile cala per sei mesi chiudono tutto e cambiano mestiere. Del resto, se si guarda la produzione del petrolio, e non il prezzo, si notano nei decenni scorsi ben poche variazioni brusche. Magari, se ci sono turbolenze, un’area produce meno, un’altra di più, qualche investimento viene sospeso, esplorazioni rimandate e così via, in attesa che tutto torni normale. È un’industria gigantesca, in grado di assorbire colpi molto duri e adattarsi».

Però ci sono parti del mondo petrolifero che potrebbero soffrire di più, per esempio lo shale oil statunitese, che richiede alti prezzi del barile per essere conveniente, e che è già gravato da una montagna di debiti.

«Giusto. E i pozzi dello shale oil sono anche di breve durata, uno o due anni, quindi le decisioni in quel settore vengono prese su orizzonti temporali molto più brevi e sono più sensibili alle fluttuazioni del prezzo del barile, rispetto al petrolio convenzionale. Ma c’è un punto da considerare: lo shale oil è un’industria strategica per gli Usa; è quella che gli ha permesso di essere quasi indipendente dal greggio estero, e su cui si sono fondate promesse e orgoglio di tanti politici ai massimi livelli. Per cui, come sembra del resto già annunciato, credo proprio che il governo Usa correrà in soccorso dello shale oil, come di tutte le altre industrie strategiche, a cominciare da quella aeronautica, che non si possono permettere di far fallire».

Ma se la crisi dei prezzi dovesse durare a lungo?

«Allora vorrà dire che anche la crisi economica durerà a lungo e i governi avranno poche risorse da distribuire, una volta fatti funzionare i servizi di base, servito il debito e assistiti cittadini e attività economiche in difficoltà. Quello che resterà per il mondo dell’energia basterà o per l’industria dei fossili, o per quella delle rinnovabili. Temo che i governi tenderanno ad ascoltare molto di più la prima, che ha forti agganci, leciti e meno, nel mondo politico e finanziario, e che se andasse a gambe all’aria farebbe molti più danni della seconda. Probabilmente il mantra del mondo politico sarà “Non ci possiamo occupare ora del clima, e del resto la crisi ha già fatto abbassare le emissioni…”».

E gli accordi sul clima, il Green Deal europeo, e simili?

«Mah, quelli in fondo sono “spiccioli” rispetto a quanto veramente servirebbe per la transizione e a quanto assorbono già in sussidi, e assorbiranno ancor di più in futuro per essere salvate, le industrie dei fossili».

Quindi addio a una vera transizione energetica, che arrivi in tempo per salvarci da un disastro climatico?

«No, non è affatto detto, solo non contiamo molto sull’aiuto del pubblico. Dovranno essere gli investitori illuminati e i privati cittadini a crederci, dandogli le risorse per continuare ed espandesi: del resto le rinnovabili sono già competitive in molte situazioni, e lo diventeranno sempre di più, anche grazie al basso prezzo del petrolio, che abbasserà il costo del silicio e di altre materie prime. Quindi investire in rinnovabili sarà per i privati una scelta migliore e più affidabile del farlo sui fossili. Il pubblico potrebbe però aiutare, riducendo almeno il peso della burocrazia nel finalizzare questi investimenti».

Però, un prezzo basso del petrolio potrebbe essere il “bacio della morte” per l’auto elettrica: le persone in difficoltà economica punteranno su quelle a motore termico ancora di più, perché costeranno meno e il carburante, in fondo, sarà più economico di oggi.

«Non ne sarei così sicuro. Pare ci siano relazioni fra l’inquinamento dell’aria e gli effetti dell’epidemia di Covid-19: se venissero dimostrate, ecco un altro buon motivo, oltre alle decine di migliaia di morti già collegati ad esso, per eliminare i motori a scoppio dalle strade e, già che ci siamo, anche i riscaldamenti a combustione, sostituendoli con pompe di calore. Certo, la gente avrà meno risorse e quindi non correrà a comprare le auto elettriche come si sperava, ma l’industria, che sull’elettrico ha investito tanto, probabilmente creerà modelli più economici per la nuova situazione, anche perché un basso prezzo del petrolio, tirerà giù anche il costo delle batterie. E se anche si venderanno meno veicoli privati, credo che comunque la propulsione elettrica dilagherà nel trasporto pubblico e nei veicoli commerciali, per la necessità di poter accedere alle città».

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