Clima e investimenti, anche BlackRock vuole uscire sul carbone

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Il principale gestore di fondi su scala globale ha annunciato la nuova strategia finanziaria: uscire dalla fonte fossile più inquinante e puntare sui criteri di sostenibilità.

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Uscire dal carbone è una delle priorità per la nuova politica d’investimento di BlackRock, il più grande gestore mondiale di fondi con sede principale a New York, nell’ambito di una più generale revisione delle strategie finanziarie per mettere la sostenibilità ambientale al centro delle scelte operative.

Così nell’ultima lettera agli investitori (link in basso) si legge che BlackRock intende riorganizzare le sue attività con un’attenzione crescente ai criteri ESG (Environmental, social and governance), cioè quei criteri che includono gli aspetti ambientali, sociali e di corretta governance aziendale nelle decisioni d’investimento.

In particolare, spiega il documento, in tema di combustibili fossili, BlackRock sta rimuovendo dal suo portafoglio tutti i titoli azionari/obbligazionari delle compagnie che ottengono oltre il 25% dei loro profitti dalla produzione di carbone, obiettivo che il gestore punta a completare entro metà 2020.

Con l’accelerazione della transizione energetica globale, spiega la nota (neretti nostri in tutte le citazioni), “non crediamo che sia ragionevole continuare a investire in questo settore sul lungo-termine dal punto di vista economico”.

Il carbone, infatti, chiarisce la lettera ai suoi investitori, “sta diventando sempre meno sostenibile in termini economici e molto esposto alle regolamentazioni a causa dei suoi impatti ambientali”.

D’altronde, in un’altra comunicazione, l’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, ha dichiarato che tutti i governi, le società e gli investitori si devono confrontare con il cambiamento climatico e devono prepararsi a una profonda redistribuzione dei capitali investiti, cercando così di ridurre i rischi associati alle attività economiche incentrate sulla produzione e sull’utilizzo di risorse energetiche inquinanti.

Tra questi c’è il noto rischio di stranded asset, cioè impianti e infrastrutture che perderanno la loro capacità di generare profitti a causa delle future restrizioni ambientali e della concorrenza portata dalle fonti rinnovabili e più in generale da tutte le attività eco-sostenibili.

Ricordiamo che secondo i dati diffusi a settembre 2019 dal movimento ambientalista globale 350.org, nato qualche anno fa negli Stati Uniti, più di mille organizzazioni in tutto il mondo tra banche, fondi sovrani, assicurazioni, fondi pensione e così via, si sono già impegnate a disinvestire circa 11.000 miliardi di dollari dalle risorse più inquinanti, con una crescita del 22.000% in confronto al 2014, quando l’impegno ammontava complessivamente a una cinquantina di miliardi.

E secondo le rilevazioni di Carbon Tracker, le aziende oil & gas di tutto il mondo potrebbero perdere svariati miliardi di dollari nei prossimi anni a causa di progetti non più remunerativi, resi inutili/obsoleti dall’espansione delle risorse rinnovabili.

Le perdite potrebbero toccare 2.200 miliardi di dollari al 2030, una cifra enorme, dovuta all’ostinazione con cui molti colossi petroliferi scommettono sull’estrazione di nuovi idrocarburi, compresi quelli cosiddetti “non convenzionali” perché si trovano negli scisti o nelle sabbie bituminose e richiedono tecniche, oltre che costose, molto invasive per essere portati alla luce (il fracking ad esempio, la “spaccatura” idraulica delle rocce).

Ricordiamo, infine, che l’Agenzia internazionale delle energie rinnovabili ha appena dichiarato che per centrare gli obiettivi climatici occorre raddoppiare a 750 miliardi di dollari gli investimenti annuali in tecnologie pulite, dirottando sulle rinnovabili i capitali che si vorrebbero invece spendere in nuovi progetti legati a carbone, gas e petrolio.

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