Amazon e l’e-commerce: non solo greenwashing, ma neanche vera sostenibilità

Sono molte le critiche nei confronti del gigante americano, ma lo shopping online non deve essere necessariamente nemico del clima e dell’ambiente.

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Si susseguono le iniziative di Amazon sul fronte della sostenibilità ambientale e delle energie rinnovabili.

Ma quante di queste iniziative sono di sostanza e quante sono invece classificabili come “greenwashing”, cioè il tentativo di dare una parvenza “verde” a attività che invece rimangono essenzialmente non sostenibili?

E di riflesso, il modello delle consegne a domicilio, di cui Amazon è il campione mondiale indiscusso, dal punto di vista della sua impronta energetica e ambientale, è meglio o peggio del consumo tradizionale nei negozi di prossimità?

Si continuerà a dibattere su queste questioni per molto tempo, probabilmente, ma al momento, sia per quanto riguarda Amazon che per quanto riguarda la virtuosità energetica dello shopping online rispetto a quello tradizionale, la verità sta probabilmente nel mezzo – riflesso di una situazione complessa in cui azioni virtuose e pratiche nocive sia sul lato della domanda che dell’offerta di prodotti e servizi continueranno a convivere ancora per diversi anni.

Amazon

Quasi a riprova di ciò, il mese scorso, nello stesso giorno, Amazon ha annunciato con una certa fanfara il lancio del Climate Pledge Fund, un fondo di venture capital con una dotazione di 2 miliardi di dollari da investire in aziende che sviluppano prodotti, servizi e tecnologie per accelerare la decarbonizzazione, quasi in contemporanea con la pubblicazione del suo rapporto sulla sostenibilità per il 2019 – in cui indicava che la CO2 da lei emessa era aumentata del 15% rispetto all’anno precedente.

Amazon Employees for Climate Justice, o AECJ, un gruppo di quasi 9.000 dipendenti del maggiore rivenditore online del mondo, dall’aprile 2019 chiede apertamente alla dirigenza dell’azienda di intraprendere un’azione più incisiva per il clima.

Secondo ACEJ e altri critici, Amazon usa tecniche di contabilizzazione del carbonio ingannevoli per distrarre dall’aumento delle emissioni. Inoltre incolpano il Climate Pledge Fund di Amazon di essersi concentrato su soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, piuttosto che sulla giustizia ambientale.

Per Genevieve Guenther, fondatrice e direttrice dell’organizzazione senza scopi di lucro End Climate Silence, tutto questo equivale a un “greenwashing completo”. “Se si approfondisce il linguaggio dell’annuncio, si raggiungono livelli sempre più profondi di corbellerie“.

Un esempio di tale condotta sarebbe il modo in cui il gigante dell’e-commerce ha calcolato e presentato la sua impronta di carbonio del 2019, ha detto Guenther a Grist.

Nel suo rapporto sulla sostenibilità, Amazon giustifica l’aumento del 15% delle emissioni indicando un aumento delle vendite del 22%, concludendo che, poiché le vendite sono aumentate più velocemente delle emissioni, il gas serra associato ad ogni dollaro di produzione è diminuito in effetti del 5% nel 2019.

Sia Guenther che AECJ hanno affermato che focalizzarsi sulla cosiddetta “intensità di carbonio” delle operazioni di Amazon è fuorviante, in quanto distrae dall’aumento delle sue emissioni in senso assoluto.

“I dollari sono irrilevanti per la salute e la sostenibilità del pianeta”, ha notato AECJ in un tweet.

La cosa forse più inquietante che molti critici imputano ad Amazon è il suo continuo rapporto con l’industria dei combustibili fossili, attraverso Amazon Web Services, o AWS.

In concorrenza con altri giganti tecnologici come Microsoft e Google, Amazon sollecita affari da compagnie petrolifere e del gas, fornendo loro servizi di machine learning e altre prestazioni basate sull’analisi dei dati per aiutarle a scovare, trivellare ed estrarre combustibili fossili.

Lo shopping online

Le critiche e perplessità focalizzate su Amazon prendono di mira di riflesso anche l’intero comparto delle vendite online.

Dal punto di vista ambientale, per esempio, si pone il problema dell’imballaggio eccessivo usato per le consegne dello shopping online.

Secondo quanto detto a Presa Diretta da Fabio Iraldo, professore di gestione della sostenibilità alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il packaging usato per le consegne a domicilio “è mediamente tre volte superiore in peso e più difficile da smaltire, in quanto multi-materiale,” rispetto alla classica busta di carta o plastica che si riceve quando si va a fare compere nei negozi fisici.

Ad appesantire notevolmente l’impronta ambientale e climatica dell’e-commerce ci sono poi anche le questioni dei prodotti resi, soprattutto per l’abbigliamento, e della distruzione di migliaia di prodotti anche nuovi o difettosi e rimasti invenduti, che moltiplica gli sprechi di risorse e l’inquinamento.

Distruggere, per esempio, 100 forni a microonde rimasti invenduti nei depositi di Amazon, che i rispettivi venditori non vogliono riprendersi perché costerebbe loro troppo, rende vana tutta l’attività di estrazione, raffinazione, manifattura e trasporto delle tante materie prime e componenti impiegate.

La distruzione in quanto tale dei 100 forni, dice Iraldo, provoca poi un ulteriore “impatto pari alla tratta aerea Milano-Pechino percorsa 11 volte.”

Sempre secondo Iraldo, sul fronte delle emissioni nocive, il cosiddetto e-commerce riduce l’impatto climatico rispetto allo shopping fisico di prossimità “solo se il cliente, per recarsi al punto vendita, deve percorrere più di 15 chilometri, altrimenti conviene il punto vendita fisico.”

Ciò in quanto, con l’avvento delle consegne in giornata o entro 24 ore, invece di massimizzare il risparmio di carburante consolidando tutte le consegne in una stessa zona con un singolo furgone solo quando questo è pieno, si preferisce massimizzare la convenienza per il cliente, inviando tanti furgoni un po’ dappertutto, anche più volte al giorno nella stessa zona, pur di consegnare la merce al cliente nel più breve tempo possibile – moltiplicando così i consumi di carburante e le emissioni nocive.

Si tratta del cosiddetto “ultimo miglio”, che rappresenta una fonte di emissioni molto importante.

Secondo la statunitense Environmental Protection Agency, infatti, i veicoli da trasporto leggeri, come i furgoni per le consegne cittadine – che non comprendono le auto passeggeri o i SUV – sono responsabili di quasi il 17,5% delle emissioni totali del settore trasporti negli USA, rispetto al 9,3% dell’intero trasporto aereo statunitense di passeggeri e merci.

Non è detto però che il modello online degli acquisti debba necessariamente dare luogo a sprechi.

“Superare” l’ultimo miglio

Sadegh Shahmohammadi della Radboud University di Nijmegen, in Olanda, e i suoi colleghi hanno infatti confrontato le emissioni di gas a effetto serra associate a tre tipi di acquisti al dettaglio nel Regno Unito: gli acquisti effettuati nei negozi tradizionali, gli acquisti online che vengono consegnati da negozi o punti di prelievo locali e l’e-commerce puro, cioè gli acquisti online consegnati a domicilio da un magazzino centrale.

I ricercatori hanno sommato le emissioni di gas serra associate allo stoccaggio, all’imballaggio e al trasporto dei prodotti al consumo principali, e hanno stimato che l’e-commerce puro ha avuto un impatto sul clima da 2 a 5 volte superiore a quello della consegna nei negozi locali, mentre l’acquisto nei negozi tradizionali ha fatto segnare emissioni di carbonio leggermente superiori rispetto alla consegna dei pacchi nei punti di prelievo locali.

Lo studio ha rilevato che la maggior parte dell’impronta climatica per ogni tipo di shopping è dovuta alle emissioni dell’ultimo miglio, cioè appunto le emissioni generate nella fase di consegna da un deposito di spedizione alla destinazione finale.

Si può dire quindi che l’e-commerce può essere climaticamente e ambientalmente più virtuoso dello shopping tradizionale, se si è disposti a rinunciare alla consegna a casa a favore del prelievo nel proprio vicinato.

Meglio ancora se si evita la spedizione in 24 ore, a cui, ha dimostrato uno studio del MIT, la maggior parte dei consumatori è disposta a rinunciare quando si fa loro presente che la consegna in 24 ore corrisponde alla distruzione di una trentina di alberi per ogni recapito, quanto a CO2 immessa nell’atmosfera

Ma poiché è difficile cambiare le abitudini dei consumatori una volta che hanno attecchito, ci sono anche altri rimedi che potrebbero attutire l’impatto dell’ultimo miglio.

Secondo i ricercatori della Radboud University, le modifiche ai metodi di consegna dell’ultimo miglio, come il passaggio dai furgoni a combustibili fossili a quelli elettrici o dai furgoni alle biciclette-cargo, soprattutto nelle zone urbane più dense e strette, potrebbero contribuire a ridurre l’impatto dei gas serra degli acquisti online a livelli comunque inferiori a quelli dello shopping tradizionale.

È su questa falsa riga che società come FedEx, Ryder e la stessa Amazon, hanno recentemente annunciato l’acquisto di migliaia di furgoni elettrici. Sono ancora molto pochi rispetto al parco veicoli totale di Amazon, ma percentualmente saranno pur sempre molti di più rispetto alla quota di veicoli elettrici presente per esempio nel parco auto italiano.

Insomma, l’evolversi dell’impatto ambientale dello shopping online è un ottimo esempio delle difficoltà e complessità che la decarbonizzazione pone non solo alle politiche lato offerta di Amazon, ma anche alle scelte lato domanda di tutti noi ­– governi, cittadini, consumatori, aziende, terzo settore.

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