I danni al clima provocati dalle aziende più grandi, cioè quelle quotate in Borsa, superano ampiamente quanto si pensava finora.
Il 40% di tutte le emissioni climalteranti sono infatti riconducibili alle sole società quotate, secondo un recente rapporto della società di gestione degli investimenti sostenibili Generation Investment Management (Gmi).
L’impatto ambientale delle società quotate – più di 10.000 a livello mondiale – è risultato molto più grande di quanto stimato in passato anche a causa del fatto che le stime precedenti prendevano in considerazione solo le emissioni direttamente provocate dalle società, senza includere le emissioni indirette.
Nello specifico, le emissioni dirette sono identificate come “emissioni Scope 1” e comprendono le emissioni da fonti di proprietà o controllate dall’azienda.
Ma oltre a queste ci sono le emissioni Scope 2 e Scope 3. L’ambito 2 copre le emissioni indirette dalla generazione di elettricità acquistata, vapore, riscaldamento e raffreddamento consumati dall’azienda, mentre l’ambito 3 comprende tutte le altre emissioni indirette che si verificano nella catena del valore di un’azienda.
Prendendo in considerazione tutte le emissioni, la proporzione di cui sono direttamente o indirettamente responsabili le aziende quotate sono raddoppiate dal 20 al 40% del totale, secondo il rapporto “Insights 6: Listed Company Emissions”, consultabile dal link in fondo a questo articolo.
“Le società quotate si nascondono in piena vista quando si tratta della crisi climatica”, ha detto Miguel Nogales, co-responsabile degli investimenti di Gmi in una nota.
“Questo significa anche che l’influenza e la leva della comunità degli investitori è stata sottovalutata. Con l’avvicinarsi della COP26, la nostra ricerca evidenzia l’importanza delle scelte di allocazione del capitale, se vogliamo avere successo nel raggiungere un mondo con lo zero netto di emissioni entro il 2050”, ha aggiunto.
Viste le loro grandi risorse e l’attenzione che hanno verso i mercati sviluppati, le aziende quotate dovranno fare la parte del leone nella riduzione delle emissioni del settore privato nei prossimi anni, ha dichiarato Nogales.
“Se il mondo deve arrivare allo zero netto di emissioni entro il 2050, l’obiettivo delle società quotate dovrebbe essere al più tardi fissato alla data del 2040, concentrandosi sulla decarbonizzazione a breve termine”, ha detto il co-responsabile degli investimenti di Gmi.
Gmi ha avvertito che le sue stime sono probabilmente ancora conservative, nonostante i dati aggiuntivi, poiché alcune emissioni hanno dovuto essere escluse del tutto laddove non si poteva tener conto di un doppio conteggio o i dati non erano disponibili.
Mentre l’azione degli investitori sul cambiamento climatico è giustamente mirata alle aziende con le maggiori emissioni e di importanza sistemica, anche il resto dell’universo quotato in Borsa ha un ruolo importante da svolgere, ha detto Felix Preston, direttore per la sostenibilità di Gmi. “La nostra analisi suggerisce che l’importanza collettiva di oltre 10.000 società quotate a livello globale è stata molto sottovalutata”, ha detto.
Con i giusti incentivi, queste aziende possono contribuire a ridurre le emissioni da più parti. Molte di loro, infatti, sono “più agili e molto meno legate a modelli di business ad alto contenuto di carbonio, e possono giocare un ruolo importante nel guidare il progresso”, ha aggiunto Preston.
Lo studio di Gmi segue un rapporto pubblicato dal gigante della consulenza Accenture, secondo cui la maggior parte delle maggiori aziende europee quotate in borsa è destinata a mancare i propri obiettivi climatici. Solo il 5% delle aziende considerate sono sulla buona strada per raggiungere i propri obiettivi di riduzione delle emissioni entro la data scelta, secondo Accenture.
Le aziende italiane
Gli impatti negativi e i ritardi evidenziati da Gmi a livello mondiale e da Accenture per l’Europa sono confermati anche per l’Italia da un ulteriore studio, secondo cui le aziende del nostro paese sono ben lontane dall’allinearsi all’obiettivo di Parigi di un surriscaldamento massimo di 1,5 °C dell’atmosfera.
Le aziende italiane, infatti, sulla base dei loro obiettivi di riduzione attuali delle emissioni (che coprono gli scope 1, 2 e 3), sono proiettate al momento su una traiettoria che porterebbe il surriscaldamento atmosferico medio a 2,8 °C, secondo il focus sull’Italia di Carbon Disclosure Project (CDP), una Ong no-profit che monitora le informative di investitori, aziende, Comuni, Regioni e Stati circa il loro impatto ambientale.
Pur avendo ridotto le loro emissioni Scope 1 e 2 del 22% negli ultimi cinque anni, le 194 aziende italiane considerate, se continueranno ad agire secondo un semplice scenario di “business as usual”, cioè non particolarmente ambizioso, riusciranno ad abbattere le emissioni solo del 3,3% all’anno dal 2019 al 2030, tasso che è al di sotto del necessario 4,2% di riduzione annua per un percorso compatibile con l’1,5 °C, ha indicato CDP.
Sono poi poche le aziende italiane, circa il 10%, che si sono poste obiettivi dettagliati a medio termine per essere incluse nell’analisi della coerenza fra le azioni climatiche e i target di aumento della temperatura, secondo lo studio di CDP, intitolato “It’s Getting Hot In Here – The Green Recovery at Risk”, consultabile dal link in fondo a questo articolo.
Solo 27 aziende in Italia si sono impegnate a fissare un obiettivo scientifico di riduzione delle emissioni, e solo 7 hanno approvato dei target, tra cui Enel, Salvatore Ferragamo, Sofidel, Barilla, A2A e Pirelli.
Ma l’80% delle aziende italiane non comunica i propri obiettivi con un’informativa adeguata per una misurazione accurata rispetto alle traiettorie della temperatura. E anche se in Italia la trasparenza ambientale è aumentata – da 29 aziende che riportavano i dati nel 2010 a 240 oggi – mancano ancora gli obiettivi ambiziosi e le azioni concrete per allinearsi all’accordo di Parigi.
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