Clima, l’Amazzonia potrebbe raggiungere il suo “punto critico” nel 2050

Riscaldamento globale, scarse precipitazioni e deforestazione minacciano di far collassare il "polmone del mondo" in tempi brevi, secondo uno studio apparso su Nature.

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Per 65 milioni di anni la Foresta Amazzonica ha resistito ai cambiamenti del clima, ma ora la regione in cui sorge è esposta a uno stress senza precedenti dovuto a siccità, caldo, incendi e disboscamento che ne stanno alterando il funzionamento, con il rischio che entro il 2050 si tocchi un punto critico di non ritorno.

È quello che emerge da uno studio apparso il 14 febbraio su Nature dal titolo “Critical transitions in the Amazon forest system” (link in basso), nel quale gli autori, analizzando gli impatti combinati delle attività umane locali e della crisi climatica globale, avvertono che la Foresta ha già superato il suo “confine sicuro” di stabilità e sollecitano azioni correttive per ripristinare le aree degradate e migliorare la resilienza dell’area.

Di superamento del “punto critico” (“tipping point” in inglese) si era parlato già nei giorni scorsi in merito alla circolazione meridiana atlantica (AMOC): secondo un’indagine comparsa il 9 febbraio su Science Advances l’AMOC collasserà entro meno di un secolo, lasciandoci pochissimo tempo per adattarci al nuovo clima che potrebbe venire, che comprende – tra le altre cose – un ribasso delle temperature in Europa di 5-15 °C. Ma andiamo per ordine.

L’Amazzonia verso il punto critico

Bernardo Flores, professore presso l’Università Federale di Santa Catarina, in Brasile, autore principale dello studio sulla Foresta Amazzonica apparso su Nature, si è detto sorpreso dai risultati, che hanno previsto il passaggio dal declino lento dell’area a quello rapido prima di quanto ci si aspettasse.

La Foresta sta già diventando più debole, ha detto, ed “entro il 2050 accelererà rapidamente. Dobbiamo rispondere adesso, perché una volta superato il punto critico perderemo il controllo su come si comporterà il sistema”, ha affermato Flores parlando con Carbon Brief.

Secondo il report, inoltre, sarà fondamentale agire a livello internazionale, perché un semplice stop alla deforestazione potrebbe non essere sufficiente a impedire il collasso della Foresta Amazzonica senza una riduzione globale delle emissioni.

Per oltre vent’anni si è discusso delle preoccupazioni sul raggiungimento di un eventuale “punto critico” nell’area, un argomento che divide analisti e scienziati, con modelli che in passato hanno suggerito che ciò potrebbe verificarsi quando porzioni tra il 20% e il 40% della Foresta saranno abbattute.

Lo studio apparso su Nature ha analizzato cinque fattori chiave che incidono sullo stress idrico in Amazzonia – riscaldamento globale, precipitazioni annuali, intensità della stagionalità delle precipitazioni, durata della stagione secca e deforestazione accumulata – arrivando a concludere che sarà la combinazione di queste variabili a portare potenzialmente il “polmone del mondo” a un punto di svolta su larga scala entro metà secolo.

Da qui a poco più di 25 anni infatti una porzione dal 10% al 47% della Foresta sarà esposto a ulteriori disturbi climatici che potrebbero “innescare transizioni inaspettate” nell’ecosistema e avere un effetto a catena negativo sui cambiamenti climatici regionali.

Come invertire la rotta

Per scongiurare questo scenario, gli analisti ritengono che la deforestazione debba mantenersi al di sotto del 10% della copertura originale del bioma forestale, che però è già stato raso al suolo per il 15%. Servirebbe quindi un ripristino di almeno il 5%. Per non contare l’ulteriore 17% di territorio già considerato “degradato” a causa di attività umane come disboscamento, incendi ed estrazioni minerarie, oppure il 38% sotto scacco a causa della prolungata siccità dell’ultimo decennio. Mantenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 °C come sancito dall’Accordo di Parigi costituisce il secondo cardine – secondo gli scienziati – per evitare l’irreversibile snaturamento della Foresta.

Le temperature della stagione secca sono già di 2 °C più alte rispetto a 40 anni fa nelle parti centrali e meridionali dell’Amazzonia. Entro metà secolo i modelli elaborati dallo studio prevedono tra 10 e 30 giorni di siccità in più rispetto a oggi, e un aumento delle temperature massime annuali compreso tra 2 °C e 4 °C. Ciò esporrebbe la Foresta e le popolazioni locali a un “calore potenzialmente insopportabile” – si legge – e ridurrebbe anche la preziosissima capacità di stoccaggio del carbonio della Foresta.

Anche le precipitazioni stanno cambiando. Dall’inizio degli anni ’80 diverse aree della Foresta Amazzonica centrale e periferica sono diventate più secche. Le precipitazioni annuali nell’area boliviana meridionale sono diminuite fino a 20 mm. Al contrario, le regioni amazzoniche occidentali e orientali stanno diventando più umide. Se queste tendenze continuassero, afferma lo studio, la resilienza dell’ecosistema verrebbe totalmente rimodellata, con un profondo impatto sulle popolazioni locali.

Sul tema anche la politica gioca un ruolo fondamentale. Il tasso di deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è aumentato vertiginosamente sotto l’ex presidente Jair Bolsonaro, ma si è quasi dimezzato nel 2023 da quando Luiz Inácio Lula da Silva è entrato in carica. Nel frattempo, la perdita di foreste nelle sezioni boliviane dell’Amazzonia ha raggiunto livelli record nel 2022. Dominick Spracklen, professore di interazioni biosfera-atmosfera presso l’Università di Leeds, afferma che questa disparità “evidenzia la necessità di un’alleanza pan-amazzonica per contribuire a ridurre in modo collaborativo la deforestazione”.

Il rallentamento dell’AMOC

L’Amazzonia ospita oltre il 10% della biodiversità terrestre, immagazzina un’enorme quantità di emissioni globali di CO2 (150-200 Pg C), contribuisce fino al 50% delle precipitazioni nella regione ed è fondamentale come stabilizzatore del clima mondiale.

Un ruolo che condivide con la circolazione meridiana atlantica, anch’essa prossima a radicali cambiamenti. I ricercatori dell’università di Utrecht, in Olanda, hanno analizzato la salinità delle acque nell’estremo meridionale dell’oceano Atlantico, notando una riduzione nella differenza di salinità, uno dei principali motori (insieme alla differenza di temperatura) dell’AMOC, che permette alle correnti di percorrere migliaia di chilometri da Nord a Sud.

Secondo i risultati dello studio, la corrente sta rallentando. Gli analisti hanno sviluppato un modello predittivo sulle conseguenze di questo fenomeno. La previsione, con confidenza del 95%, è che l’AMOC  si fermi già in un momento dei prossimi 70 anni, da 2025 al 2095,  con i maggiori effetti sul clima che riguarderanno soprattutto l’Europa, che vedrebbe collassare le temperature medie anche di 10 °C nella parte occidentale. Molte città europee perderebbero in media 3 °C per decennio: considerando che il riscaldamento globale incede per 0,2 °C nello stesso arco temporale, si tratta di un cambiamento 15 volte più rapido.

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