Adattamento al clima che cambia: un’Italia pericolosamente impreparata

Gli eventi meteo estremi di questo autunno e degli ultimi anni dovrebbero averci insegnato qualcosa sui rischi cui i cambiamenti climatici sottopongono il nostro territorio. Eppure l'Italia non si sta preparando a difendersi dal clima che cambia: siamo ultimi in Europa in quanto a strategie di adattamento come mostra uno studio.

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L’autunno 2013 ha rivelato all’Italia quello che forse si sarebbe dovuto capire già da tempo: il cambiamento climatico, attraverso il riscaldamento anomalo del Mediterraneo e la modifica del movimento delle masse d’aria sull’Europa, sta esponendo il nostro paese a eventi meteorologici di breve durata, ma estremi per intensità, in grado di provocare stragi e gravissimi danni materiali. Sono ormai diversi anni, per esempio, che, a ogni autunno, assistiamo ad alluvioni lampo, un tempo più tipiche dei climi tropicali che dei nostri.

Ricordiamo solo le peggiori fra le più recenti: 36 morti vicino a Messina il 1° ottobre 2009; 3 morti e danni gravissimi in Veneto il 1° novembre 2010; 18 morti fra fine ottobre e inizio novembre 2011 fra Genova, Cinque Terre e Lunigiana; 6 morti il 12 novembre 2012 nella Maremma toscana, 17 morti intorno ad Olbia il 18 novembre 2013. A quest’ultimo episodio è seguito poi, ai primi di dicembre, una sorta di ciclone mediterraneo, che ha investito la parte Adriatica e Ionica del Meridione, con piogge, venti e mareggiate violentissimi che hanno devastato le coste, provocato frane e fatto esondare fiumi fra la Calabria e le Marche. Solo l’allarme precoce e le misure di sicurezza prese da sindaci, prefetti e protezione civile, hanno contenuto a tre il numero dei morti, evitando una strage simile a quella sarda.

Questo dimostra che se fermare il cambiamento climatico è cosa enormemente difficile e al di là delle nostre possibilità di nazione, almeno possiamo tentare di adattarci alle sue conseguenze attuali e future, per limitare vittime e danni. Una ricerca appena uscita sulla rivista Climatic Change fa il punto proprio su questo aspetto del problema climatico in Europa. La geografa tedesca Diana Reckien, che lavora alla Columbia University di New York, con la collaborazione di un folto gruppo di colleghi europei, ha riassunto come 200 maggiori città europee di 11 nazioni diverse, fra cui l’Italia, stiano agendo per limitare le emissioni di CO2 e predisponendo piani per adattarsi al mutamento del clima.

I risultati non sono molto incoraggianti per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare. Se 130 delle città europee considerate (il 65%) ha almeno un piano per limitare le proprie emissioni, solo il 28% ha un piano di mitigazione dei rischi legati al cambiamento climatico, mentre il 35% delle città considerate non pensa a ridurre né emissioni di CO2 né i rischi per la popolazione.

La nazione che sembra aver preso più sul serio il problema è la Gran Bretagna, dove il 93% delle 30 città considerate ha almeno un piano di mitigazione. In Italia lo ha solo il 56% delle realtà censite: 18 città su 32. Ma mentre l’impegno medio di riduzione delle città britanniche arriva al 58,5% di CO2 in meno rispetto al 1990, le italiane si impegnano per una riduzione delle proprie emissioni di solo il 12,5% in media, sotto il minimo sindacale per rispettare gli impegni europei al 2020.

Ma ancora più sconcertante è il quadro che emerge dai piani di adattamento al cambiamento climatico: mentre ce l’ha la maggioranza delle città britanniche e buona parte di quelle francesi e finlandesi, in Italia lo studio segnala solo una città italiana (Padova), con un piano di adattamento al cambiamento climatico. Particolarmente preoccupante il fatto che nessuna città meridionale e delle isole abbia pensato a elaborare piani di mitigazione, visto che è proprio in quell’area che gli eventi meteo estremi stanno colpendo più duro e, presumibilmente, lo faranno ancora di più in futuro.

“In realtà – spiega Piero Pelizzaro, esperto di adattamento climatico per il Kyoto Club – la situazione reale in Italia è diversa da quella indicata in questo studio. Al momento solo una città, Ancona, ha un piano di adattamento climatico, approvato in consiglio comunale. Padova e Alba hanno iniziato a sviluppare il proprio piano di adattamento, mentre Bologna ha completato da poco un piano della vulnerabilità dell’area metropolitana. Questo muoversi in ordine sparso desta molte perplessità, in quanto se può essere opportuno immaginare piani per le grandi aree metropolitane, per le altre città sarebbe più opportuno immaginare piani di adattamento integrati almeno a livello provinciale o regionale, in quanto molte misure vanno applicate su una scala maggiore di quella cittadina. Per ora ci sono solo due piani di adattamento provinciale, per Genova e Catania, che però risalgono a diversi anni fa e non mi risulta siano mai stati implementati, e un’unica strategia regionale, quella lombarda, che indirizza ed elenca obiettivi, rimandando gli interventi di dettaglio a un futuro piano di adattamento”.

Ma le mappe di rischio idrogeologico, che coprono praticamente tutto il territorio nazionale e che sono state usate anche in occasione di quest’ultimo «ciclone mediterraneo», per limitare i danni, non si possono già considerare piani di adattamento? “Quelli sono studi che indicano i rischi attuali e che invitano a prendere decisioni di buon senso, che sarebbero dovute già essere state prese da tempo, global warming o meno, come non costruire e rimuovere abitazioni ed edifici sensibili da aree franose o alluvionabili (a Pescara, nei giorni scorsi, per esempio, il primo edificio a essere stato reso inagibile all’acqua è stata la caserma dei pompieri), o rinaturalizzare corsi d’acqua cementificati e coperti. I piani di adattamento, invece prevedono interventi per mitigare quanto si prevede avverrà nel prossimo futuro. Possono comprendere, per esempio, aumentare il verde cittadino per ridurre l’impatto delle future ondate di calore, oppure ripavimentare le strade con asfalto drenante e aumentare i canali di deflusso dell’acqua. O, come hanno fatto a Rotterdam, costruire nelle città campi di gioco, piazzette o anfiteatri più bassi del piano stradale, che possano anche funzionare temporaneamente come vasche di raccolta, per ridurre le conseguenze delle inondazioni. Di interventi di questo tipo, in Italia, per ora non se ne vedono”, ci ha detto Pelizzaro.

Insomma, siamo «al centro del mirino» del cambiamento climatico, ma quanto a cominciare a prepararci a questa situazione, siamo all’anno zero, se non sottozero.

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