L’Italia tra eventi meteo estremi e il clima che cambia

Mentre a Doha sono in corso i negoziati per arrivare a un accordo sul clima, le conseguenze dei cambiamenti climatici si fanno già sentire anche in Italia. Gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti e dobbiamo approntare al più presto un piano per adattarci al clima che cambia. Intervista a Sergio Castellari, Focal Point IPCC per l'Italia.

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Mentre a Doha sono in corso i negoziati per arrivare a un accordo per combattere il riscaldamento globale, le conseguenze dei cambiamenti climatici si fanno già sentire anche in Italia. La settimana scorsa il nostro Paese è stato vittima di precipitazioni piovose di fortissima intensità che per l’ennesima volta hanno portato ad alluvioni e smottamenti. Gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti e l’Italia deve approntare al più presto un piano per adattarsi al clima che cambia. Ne abbiamo parlato con Sergio Castellari, ricercatore del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici e Focal Point IPCC per l’Italia.

Professor Castellari, anche in questi giorni abbiamo vissuto un allerta meteo. Come sta cambiando il tempo meteorologico in Italia?

I dati osservativi dimostrano una maggior frequenza e durata delle ondate di calore e una diminuzione del numero di giorni piovosi a fronte di un aumento della quantità di pioggia, quindi una maggiore intensità piovosa, che può portare a impatti sul territorio. Il fatto che ci sia un impatto come un’inondazione dipende poi da quanto è vulnerabile il territorio: se non è stato gestito correttamente, per esempio se è stato soggetto a un’urbanizzazione esagerata, l’impatto potrà essere maggiore.

I fenomeni estremi come le alluvioni dei giorni scorsi possono essere riconosciuti come effetti del riscaldamento globale?

La questione è complessa. Quello che è certo è che c’è stato un aumento degli eventi meteorologici estremi, ondate di calore e precipitazioni concentrate. Per attribuire con certezza i singoli eventi al riscaldamento globale però occorrerebbe l’analisi di un data set più ampio dal punto di vista temporale, tale da collocare l’evento in un trend, dato che i cambiamenti climatici a differenza di quelli meteorologici si valutano su tempi molto lunghi.

Come potrebbe cambiare il clima nei prossimi anni sia a livello globale che nella nostra penisola?

Ci sono diversi scenari, costruiti ipotizzando diversi andamenti nelle emissioni di gas serra. Quelli presentati dall’IPCC nell’ultimo rapporto globale del 2007 parlano di aumenti della temperatura media globale dai 2 ai 4 °C rispetto al presente. Ovviamente alcune zone del Pianeta si riscalderanno di più e alcune meno: è quello che sta accadendo nell’Artico che si sta scaldando circa il doppio rispetto all’aumento della temperatura media globale, che nell’ultimo secolo è stato di circa 0,7 °C, tant’è che abbiamo raggiunto quest’anno il record di minore estensione della calotta artica. Per il Mediterraneo nei prossimi anni si prevedono aumenti delle temperature e purtroppo un calo del 20-30% della precipitazione media, una perdita molto grave in termini di risorse idriche. Questo andrà a impattare su agricoltura e produzione idroelettrica. Un processo quello di degradazione delle risorse idriche che già si vede. Per esempio, la portata estiva del Po è diminuita del 40% negli ultimi 30 anni, con conseguenti problemi di irrigazione, dato che il cuneo salino dal mare sta rientrando sempre di più.

Che impatto economico potranno avere questi effetti per il nostro Paese?

Non sono un economista ambientale, ma posso dire che gli impatti dipendono essenzialmente dalla vulnerabilità del territorio. In mancanza di una capacità di adattamento, possono essere altissimi. Si pensi per esempio a quelli sulle coste: distruzione di insediamenti, danni a pesca e turismo, eccetera. In Paesi sviluppati come l’Italia gli impatti possono essere contenuti qualora ci si doti di piani di adattamento preventivo adeguati.

L’Italia lo sta facendo?

In Italia siamo all’inizio. Quest’anno il Ministero dell’Ambiente ha avviato l’elaborazione di una strategia di adattamento ai cambiamenti climatici coordinata per la parte tecnico-scientifica dal CMCC, ente a cui appartengo. Questa strategia se verrà poi implementata, con l’allocazione di risorse, in un piano nazionale per l’adattamento ci porterà a essere al livello dei Paesi del Nord Europa. Per ora in Europa, su 27 Paesi, 13 hanno già una strategia e alcuni hanno già adottato un piano, in Italia tra circa un anno avremo una strategia, cui speriamo seguirà un piano.

Quali sono le azioni prioritarie da intraprendere per adattarsi?

Alla base di tutto occorre avere una migliore conoscenza della vulnerabilità territoriale, per combattere meglio per esempio la desertificazione o le alluvioni. Da lì si possono sviluppare politiche di pianificazione che aumentino la resistenza e la resilienza del territorio agli impatti. A breve termine si deve migliorare la capacità di monitoraggio: quindi potenziare i servizi metereologici e climatici. Su un termine più lungo occorre attuare un piano nazionale di adattamento che per esempio ottimizzi l’utilizzo delle risorse idriche, dia un supporto tecnico all’agricoltura per renderla più resiliente al cambiamento climatico, sappia gestire i problemi sanitari legati alle ondate di calore o alle epidemie che si potrebbero diffondere con l’innalzamento delle temperature, minimizzi il rischio con adeguati interventi di manutenzione del territorio.

Il contesto politico-economico attuale pone forti pressioni per ridurre la spesa pubblica: c’è il pericolo che per questo non si destinino le risorse necessarie alle azioni adattamento? Penso per esempio al patto di stabilità che potrebbe legare le mani ai Comuni anche su questo versante.

Il patto di stabilità può frenare le possibili azioni di gestione e salvaguardia del territorio che i Comuni possono fare, e le municipalità sono tra gli attori principali in questo campo. Credo che il patto di stabilità da questo punto di vista potrebbe essere più flessibile perché un investimento fatto ora, specie se inserito in un piano organico, ci porterebbe a risparmiare spese molto più grosse per la gestione di emergenze in futuro.

La politica sta dimostrando una sensibilità adeguata al tema dell’adattamento?

Vedo una grande consapevolezza e attenzione ai temi dei cambiamenti climatici e dell’adattamento da parte dei politici locali, che sono sul territorio, meno da parte di quelli nazionali.

A Doha sono in corso i negoziati per un nuovo trattato globale che riduca le emissioni di gas serra. Per mantenere il riscaldamento entro la soglia critica dei 2 °C dai livelli preindustriali di quanto bisognerebbe tagliare le emissioni? Crede che si riuscirà a raggiungere un accordo mondiale che tagli la CO2 a sufficienza?

Per avere buone probabilità di mantenere il riscaldamento entro i 2 °C dai livelli preindustriali bisognerebbe attuare entro il 2020 riduzioni dei gas serra dal 50% in su. Riduzioni che dovranno coinvolgere anche i Paesi emergenti che insieme a tutti i Paesi in via di sviluppo dal 2005 hanno superato quelli di prima industrializzazione in quanto a emissioni di gas serra. A Doha si prosegue con il lavoro impostato a Durban per un nuovo possibile trattato globale che includa anche i Paesi emergenti, da firmare entro il 2015 e rendere operativo entro il 2020. Davanti a noi dunque abbiamo ancora uno spazio di manovra di quasi 10 anni. È difficile prevedere come andranno i negoziati di Doha, ancora lontani dalla conclusione: credo che i passi saranno molto lenti.

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