Un’analisi costi-benefici per fare scelte più sostenibili

Perché una corretta analisi costi-benefici deve essere lo strumento da utilizzare per le politiche su rinnovabili ed efficienza energetica anche ai fini dell'utilità pubblica sul lungo periodo? Perché la politica, in nome dell'urgenza, non se ne avvale? Un'intervista ad Andrea Molocchi, economista e responsabile studi dell’associazione Amici della Terra.

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Proseguiamo nella riflessione sull’importanza di una valutazione delle politiche finalizzate a promuovere e a sviluppare le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica nel nostro paese, intervistando Andrea Molocchi, economista, responsabile studi dell’associazione Amici della Terra. Interessante è il suo approccio riguardo allo strumento dell’analisi costi-benefici in un’ottica di utilità pubblica e di lungo periodo.

Molocchi, iniziamo dagli strumenti decisionali per promuovere l’utilizzo delle fonti rinnovabili, Il decisore politico in che modo dovrebbe avvalersi del contributo dell’economista per operare le politiche  più efficaci?

Il punto è quale criterio di utilità gli economisti sono chiamati ad applicare. L’economista  che valuta la redditività dell’investimento in un’ottica privatistica, può contribuire a valutare il gap di competitività delle diverse tecnologie a rinnovabili rispetto agli impianti a combustibili fossili. Ma questa è una visione del tutto parziale del sostegno pubblico all’innovazione in un’economia complessa. Per definizione non tiene conto dei costi esterni evitati e, in taluni casi, generati dalle diverse tecnologie a rinnovabili, e tanto meno dei benefici di valore aggiunto economico che gli strumenti di sostegno possono generare, attraverso l’incidenza del tessuto produttivo nazionale nella struttura di offerta delle filiere delle tecnologie: dai materiali ai componenti, ai sistemi, a loro installatori e manutentori. I sistemi incentivanti degli anni ’90  sono stati concepiti per l’appunto allo scopo di assicurare la competitività economica della tecnologia, condizione necessaria ma non sufficiente per generare vantaggi per la collettività: i certificati verdi per minimizzare il costo di sostegno delle rinnovabili, il conto energia per assicurare il decollo di alcuni settori considerati strategici, come il fotovoltaico o il termodinamico, e le tariffe omnicomprensive per assicurare la copertura dei maggiori costi unitari nei casi di piccoli impianti, semplificando il meccanismo di sostegno.

Basta tutto questo per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso e oltre il breve periodo?

Ritengo che se in un quadro normativo di questo tipo non è prevista una forte regia né una capacità di monitoraggio e di verifica a consuntivo, è evidente che l’ottica privatistica degli economisti viene facilmente asservita agli interessi dei privati che riescono a “tirare di più la giacca”, finendo per promuovere tecnologie con un rapporto benefici-costi molto basso e purtroppo, in una situazione di risorse scarse, questo può andare a scapito di tecnologie o interventi forse più complessi, ma con un rapporto benefici-costi decisamente migliore. La riforma degli strumenti incentivanti per le fonti rinnovabili richiesta dal Dlgs 28 2011 è un’occasione formidabile per cambiare metodo, anche se ad oggi sono tutt’altro che incoraggianti. Nel PANER (Piano d’Azione Nazionale per le rinnovabili, ndr) non sono esposte le valutazioni privatistiche di costo, tantomeno sono state effettuate valutazioni di beneficio economico o di mitigazione dei costi esterni per la collettività. E’ stata addirittura evitata la Valutazione Ambientale Strategica, obbligatoria per legge, che avrebbe potuto indirizzare uno sviluppo razionale degli impianti eolici, fotovoltaici e a biomasse nel nostro paese, evitando in particolare impatti paesaggistici. I Piani energetici richiesti dall’UE sono stati visti nel nostro paese come “un obbligo da regime comunista” e non come una “opportunità” che le regole dell’UE ci danno per progettare lo sviluppo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica in maniera tale che ciascuno Stato Membro possa massimizzare i benefici collettivi netti per il Paese. Cioè cercando di massimizzare i ritorni di sviluppo per l’industria nazionale e prevenendo i costi ambientali.

Quali sono gli strumenti a disposizione dell’economista per fare queste valutazioni?

Gli strumenti offerti da una moderna analisi costi-benefici in un’ottica di utilità pubblica, quella che oggi viene chiamata ECBA, ovvero Environmental Cost Benefit Analysis, accompagna allo strumentario convenzionale della costi-benefici, la valutazione economica delle esternalità ambientali. Per maggiori informazioni su questo strumentario e su come ad esempio, esso potrebbe essere impiegato per la valutazione economica nell’ambito di strumenti di prevenzione o di compensazione dei danni, consiglio di visitare il sito www.ecbaproject.eu, realizzato in collaborazione con Donatello Aspromonte, uno dei maggiori esperti di costi-benefici nell’ambito degli studi di fattibilità. Per applicare questi strumenti sono richieste esperienze di ricerca e competenze di analisi che non si improvvisano in pochi mesi, né in un anno. Ci vogliono percorsi formativi, valorizzando il ruolo delle università e degli enti di ricerca, istituzioni pubbliche specializzate, come l’UVAL, metodologie di riferimento per armonizzare il lavoro dei consulenti, e statistiche appropriate, come le tavole input output.

Sono competenze a disposizioni dei decisori? Vengono considerate nelle fase di valutazione delle politiche?

I nostri decisori non hanno mai ritenuto prioritario utilizzare questi strumenti, magari in nome dell’urgenza, di una malintesa concretezza, del ritorno a breve termine, di un’autonomia decisionale della politica, non certo intesa come realizzazione di un interesse pubblico. Ovviamente l’economista non può sostituire la decisione politica, ma quest’ultima dovrebbe sempre poter usufruire delle indicazioni e controindicazioni dell’analisi costi-benefici. La mancanza di un sistema organizzato per l’effettuazione dell’analisi costi-benefici ad ogni livello di governo, statale e regionale soprattutto, è un problema che non possiamo più permetterci di eludere. E’ un problema che ha molto, tantissimo a che fare con l’accumulo di un debito pubblico così rilevante del nostro paese e soprattutto con la vera radice del male: che per oltre quarant’anni si sia pensato di poter scaricare sulle generazioni future gli impegni di spesa corrente e i soldi spesi male delle attuali generazioni. Se spendiamo male i soldi pubblici viene ridotta l’opportunità di un miglioramento futuro – attraverso la ricerca, innovazione, occupazione, infrastrutture ambientali – a cui quei soldi sono destinati.

Veniamo agli incentivi per le rinnovabili. Un’analisi costi-benefici potrebbe aiutare il decisore a capire quali implementare, di quale entità, su quale orizzonte temporale, come distribuire le risorse sulle diverse tecnologie a disposizione?

La procedura di una ECBA può essere applicata alle misure di incentivazione per le rinnovabili. C’è una prima fase di indagine che inizia con la “fotografia dello stato di cose”: l’identificazione delle filiere tecnologiche, incluse le tecnologie a combustibili fossili con le loro diverse configurazioni di efficienza energetica, i profili temporali di vita utile degli impianti, la struttura dei costi di filiera, distinguendo fra investimenti, esercizio e fine vita, la struttura dei costi ambientali e la struttura di allocazione della domanda fra prodotti che generano valore aggiunto nel territorio nazionale e prodotti importati dall’estero. Questa prima fase serve a gettare le basi del ragionamento: identificando le tecnologie che non hanno bisogno di incentivi massivi, ma solo di un sostegno all’accelerazione e ottimizzazione di investimenti già di per sé convenienti e le tecnologie che hanno invece bisogno di significativi incentivi  e che, quindi, per poter meritare questo sostegno devono evidenziare un profilo di benefici sociali altrettanto sostenuto. Successivamente interviene l’analisi di scenario.

Qual è il suo scopo?

L’obiettivo è simulare i principali effetti delle diverse misure ipotizzate nell’arco temporale della vita delle tecnologie: se si parla di incentivi sull’energia rinnovabile prodotta, oltre a individuare chi e per quanti anni sostiene l’onere dell’incentivo, bisognerebbe stimare gli investimenti attivati e l’effetto di spiazzamento sui settori “convenzionali”, il valore aggiunto per l’economia dovuto all’incremento netto dell’occupazione, l’effetto netto sulla redditività delle imprese e delle entrate nette per lo Stato, senza dimenticare le principali esternalità ambientali (generate o evitate, rispetto alle tecnologie di riferimento). Questo lavoro dovrebbe essere finalizzato ad una graduatoria di merito delle misure di incentivazione basata sugli indicatori costi benefici, ad esempio l’indicatore benefici-costi, che rapporta il valore attuale del flusso di benefici futuri al valore attuale del flusso di costi futuri dell’incentivazione, consentirebbe di confrontare misure di sostegno riguardanti i diversi pacchetti di tecnologie.

Stiamo parlando di un approccio molto lontano dalla usuale prassi di valutazione.

Si può velocemente recuperare, a patto di un cambiamento anche culturale. Faccio solo un esempio: per anni l’impatto economico degli strumenti di incentivazione è stato misurato come impatto annuo in un’ottica a breve termine. Molte associazioni di consumatori denunciano l’impatto immediato in bolletta occultando ai consumatori gli impatti reali a lungo termine, incommensurabilmente maggiori. Molti Ministeri ragionano su impatti a 3 anni nonostante i meccanismi in questione richiedano l’erogazione di risorse per oltre vent’anni. Anche l’Autorità, pur avendo avuto il merito di porre il problema degli oneri di incentivazione, è arrivata al massimo al 2020 e non ha mai osato evidenziare gli oneri sull’intero arco temporale degli incentivi. Non credo che sia un problema solo culturale, ma credo che senza uno scatto etico non si possa avviare una vera riforma. Il lavoro che ho prospettato è complesso, ma tecnicamente a portata di mano.

Possiamo citare qualche esempio di chi può contribuire a questo cambiamento?

Lo scorso Confindustria ha realizzato uno studio sul valore aggiunto generabile nel decennio 2011-2020 dal pacchetto di interventi di efficienza energetica proposto per il Piano Straordinario, stimando fra l’altro gli effetti netti per il bilancio dello Stato fino al 2020. Strutture di ricerca come ENEA, RSE, REF, IEFE, Università di Padova, senza la pretesa di citarle tutte, hanno valutato le tecnologie e i costi di molte filiere delle rinnovabili e, in alcuni casi, sono state valutate anche alcune tecnologie dell’efficienza. L’associazione Amici della Terra ha una vasta esperienza di valutazione dei costi esterni ambientali a supporto della formazione delle politiche, nell’energia e nei trasporti. Quello che manca è la volontà politica di valorizzare  competenze attualmente sparse fra pubblico e privato, per sviluppare una vera e propria funzione del sistema di governo, a supporto della presa delle decisioni.

Nell’ultimo anno si è creata una sorta di polarizzazione fra il comparto delle rinnovabili elettriche e quello delle rinnovabili termiche. Ritiene che politiche fondate su un’adeguata analisi costi-benefici potrebbero aiutare a superare tali contrapposizioni?

Se impostate in maniera preventiva, certamente sì. Proprio per cercare di evidenziare l’utilità dell’approccio costi benefici, utilizzando i risultati di alcune delle esperienze di valutazione che ho prima citato, a cavallo fra il 2010 e il 2011, in vista della Conferenza Nazionale sulle rinnovabili termiche organizzata da Amici della Terra e tenutasi a metà aprile 2011, quindi in un momento cruciale del dibattito su rinnovabili ed efficienza energetica, ho effettuato un’analisi costi benefici “embrionale” che mette a confronto il pacchetto di misure a sostegno dell’efficienza energetica (Confindustria), il fabbisogno incentivante per le rinnovabili termiche (valutato dal REF) e le richieste di Assosolare per il IV conto energia (addirittura superate dal decreto stesso di aprile 2011). Anche se è un lavoro necessariamente preliminare, quel che sorprende è la discrepanza di risultato su alcuni indicatori, con differenze che non sono di alcuni punti percentuali in più o in meno, ma di diversi ordini di grandezza, come ad esempio l’indicatore che rapporta i benefici occupazionali agli oneri di incentivazione, che è di 1,3 addetti per milione di incentivo per il fotovoltaico e di 68 addetti per il pacchetto di efficienza energetica. A ben pensarci, la ragione è intuitiva, dato che il fotovoltaico richiederà un flusso di circa 120 miliardi di incentivi su un arco di tempo che va fino al 2035 per realizzare nei prossimi 5 anni impianti che generano occupazione pressoché solo in fase di installazione, mentre il pacchetto di efficienza energetica ha un costo cumulato di 24 miliardi fino al 2020 ma l’occupazione generata riguarda la fase di installazione, in buona percentuale anche la produzione, e soprattutto l’intera fase di esercizio, innescando quindi un’occupazione consistente e duratura.

Quali conclusioni si possono trarre?

Le tecnologie non sono belle o brutte. Ogni innovazione è carica di intelligenza tecnica. Ma siamo noi, con i nostri bisogni, le nostre scelte e nei limiti della nostra razionalità, a decidere del futuro e del successo delle innovazioni, prendendole tutte in esame senza pregiudiziali, migliorandole, orientandole nelle applicazioni e rendendole effettivamente benefiche per la nostra società.

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