Global Divestment Day, perché il rischio da fossili fa sempre più paura

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Il 13 e il 14 febbraio la campagna mondiale che promuove il disinvestimento dalle energie fossili ha indetto il Global Divestment Day. Intanto il mondo della finanza inizia a preoccuparsi per il forte rischio connesso agli investimenti in carbone, gas e petrolio presenti nei loro asset. Le 200 aziende fossili nel mirino della campagna. E tra queste figura anche la nostra ENI.

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L’idea è semplice, eppure efficace: fiaccare l’industria dell’energia fossile togliendole giorno dopo giorno i finanziamenti, o, meglio, i finanziatori, anche singoli cittadini che detengono titoli legati a compagnie dedite all’attività del carbone, petrolio e gas. Questo è l’obiettivo della campagna Divestment, che culminerà nelle giornate del 13 e 14 febbraio nel Global Divestment Day: le associazioni aderenti chiedono apppunto di disinvestire in questi settori per liberare risorse economiche e convogliarle verso altri comparti dell’economia.

Questo approccio sta risultando vincente, benché ancora simbolico visti i numeri in ballo: dal 2012, 181 istituzioni e governi locali, e 656 privati, si sono impegnati a disinvestire nelle fonti fossili, per un asset complessivo di 50 miliardi di dollari.

“Visto che i governi hanno fallito nel prendere azioni coraggiose nei confronti della crisi climatica e l’espansione dei combustibili fossili continua a un ritmo crescente, è tempo di risolvere le questioni con le nostre mani”, spiegano gli organizzatori sul sito www.gofossilfree.org.

“L’industria delle fonti fossili ha ammanettato il potere politico insieme al potere finanziario. Ma si dovrà confrontare con una tipo di potere diverso: quello dei movimenti, e il movimento di questo momento è per il disinvestimento. Attraverso il disinvestimento sfidiamo direttamente il consenso sociale di queste aziende, che operano in ‘attività-furfanti’ nella ricerca del profitto a spese di molte comunità e dell’ambiente. Abbiamo bisogno di quante più forze possibili nella società per dire che queste aziende sono dei furfanti”, affermano gli organizzatori.

Nel mirino dei promotori dell’evento ci sono quindi tutte le aziende che traggono direttamente profitto dalle energie fossili, ma la campagna si concentra soprattutto su 200 di esse: ai primi posti figurano le prime cinque compagnie mondiali del carbone  (Severstal JSC, Anglo American PLC, BHP Billiton, Shanxi Coking Co. Ltd. ed Exxaro Resources Ltd) e le prime cinque del petrolio e gas (Lukoil Holdings, Exxon Mobil Corp, BP PLC, Gazprom OAO, Chevron Corp), numerate per potenziale di carbonio contenuto nelle riserve conosciute. Al 14° posto figura l’ENI, con 2.561 milioni di tonnellate di anidride carbonica. (Qui la tabella completa e sotto il ranking delle prime 20, carbone e gas-petrolio).

Tra gli argomenti utilizzati per convincere a disinvestire, c’è il maggior grado di rischio connesso alle fonti fossili: come riportato dallo studio del CERES “Sustainable Extraction? An Analysis of SEC Disclosure by Major Oil & Gas Companies” , le aziende che producono e utilizzano petrolio e gas “presentano un rischio crescente”: questo in parte a causa delle nuove tipologie di estrazione, e in particolare per le esplorazioni ed estrazioni in acque profonde, i cui rischi sono tristemente associati al disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della British Petroleum, con uno sversamento di petrolio nelle acque del Golfo del Messico durato oltre 100 giorni e causato da un incidente a oltre 1.500 m di profondità.

Perfino la Deutsche Bank ha recentemente pubblicato un report in cui si prevede che il ‘picco del petrolio’ potrebbe essere raggiunto presto e non per questioni legate alla disponibilità, ma alla regolamentazione ambientale: “Il petrolio sarà limitato dal livello di domanda consentita entro i limiti delle emissioni di CO2, e questo avrà implicazioni per le abitudini di Paesi, aziende e consumatori. Forse il calo dell’anno scorso è stata la prima avvisaglia di questo imminente e profondo cambiamento”. Intanto la Banca d’Inghilterra ha iniziato un’investigazione formale sul rischio di stabilità finanziaria derivante da vaste perdite potenziali di aziende nel settore petrolifero.

Tuttavia, le argomentazioni che più fanno breccia tra chi aderisce alla campagna rimangono le connotazioni etiche delle scelte di finanziamento: venerdì scorso anche il gigantesco fondo sovrano norvegese, il Norwegian Sovereign Wealth ha dichiarato di aver disinvestito da 22 aziende dei settori carbone e petrolio da sabbie bituminose, perché sono considerate le attività più rischiose per l’ambiente. Le cifre ancora non sono state dichiarate, ma potenzialmente è un disinvestimento di diversi miliardi di dollari.

Tra gli aderenti figurano molte università americane e movimenti religiosi (la lista completa è disponibile a questo link). Sonoin effetti le tipologie di istituzioni che più hanno a che fare con l’etica e le nuove generazioni. Non a caso, il maggior obiettivo per l’Italia della campagna è proprio il Vaticano, con la richiesta per il Papa di dichiarare di non investire, o non investire più, in energia non rinnovabile.

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