Gas e petrolio, i convitati di pietra del “Piano Mattei”

La presidente del Consiglio non li cita mai durante il vertice Italia-Africa, ma tutto lascia presagire nuovi investimenti in fonti fossili nel continente.

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Del “Piano Mattei” al momento c’è la scatola: un piano di applicazione che definisce ruoli e ambiti di intervento approvato sotto forma di decreto legge alla Camera lo scorso 10 gennaio, e anche l’impatto sulle casse dello Stato, 5 miliardi e mezzo di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e 2,5 dal fondo per la Cooperazione allo sviluppo, e ci sono le intenzioni (dichiarate) di creare una partnership “paritaria“, “non predatoria“, con “mutui benefici“.

Sul “non predatoria”, ironicamente potremmo commentare: excusatio non petita, accusatio manifesta.

Parlando in Senato di fronte ai rappresentanti di 46 Paesi africani (inclusi capi di Stato e di governo) e di 25 organismi multilaterali nel corso del vertice Italia-Africa, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non ha però specificato quali sono gli interventi che Palazzo Chigi intende promuovere, conservando quell’ambiguità su alcuni temi cruciali, su tutti quello dell’energia, uno degli ambiti in cui si strutturerà il Piano, insieme a salute, acqua, agricoltura, istruzione e formazione professionale.

Nonostante non sia stato ancora fatto alcun riferimento ai combustibili fossili, gli elementi per pensare che sia soltanto una questione di tempo prima che annunci in tal senso inizino a palesarsi ci sono, eccome.

Il governo ha rilanciato la corsa dell’Italia a diventare hub europeo del gas. Nei primi 100 giorni di attività l’esecutivo Meloni ha mostrato un rinnovato dinamismo nell’area Mediterranea, firmando un accordo per il gas da 8 miliardi di dollari con la Compagnia petrolifera nazionale libica per sviluppare due giacimenti di gas offshore e riaffermando il proprio impegno per una maggiore cooperazione energetica con l’Algeria.

Lo stesso “Piano Mattei” nasce in risposta alla crisi energetica dovuta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, in una logica (anche) di diversificazione degli approvvigionamenti. Inoltre, tra le 12 società partecipate che hanno presenziato al vertice Italia-Africa c’è Eni, il cui accordo con la società algerina Sonatrach, firmato durante il primo viaggio ad Algeri della premier, è uno dei principali motori della strategia.

Non è un caso quindi che le preoccupazioni di molti, a partire dalla società civile africana, siano concentrate sull’eventualità che con l’accordo – che il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha definito un “Piano Marshall europeo per l’Africa” – si annuncino nuove estrazioni di fonti fossili più che altro destinate alle esportazioni.

Decine di organizzazioni e associazioni africane hanno scritto una lettera al presidente della Repubblica Mattarella, ma anche a Meloni e Tajani, dal titolo “Don’t gas Africa”, nella quale criticano il Piano perché “stimola maggiori investimenti e flussi finanziari in nuovi progetti di petrolio e gas, minando il benessere degli africani minacciati dalle conseguenze del riscaldamento globale, distogliendo risorse da altri settori, come l’espansione delle energie rinnovabili o i progetti di adattamento, che potrebbero essere più rilevanti”.

Per Dean Bhekumuzi Bhebhe, responsabile delle campagne di Don’t Gas Africa, “il Piano Mattei è un simbolo delle ambizioni italiane in materia di combustibili fossili, un piano pericoloso e un’ambizione miope che minaccia di trasformare l’Africa in un mero condotto energetico per l’Europa”.

Anche il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki, ha mosso critiche a Roma per la “mancata consultazione” di tutte le parti in causa quando c’era da elaborare il piano.

Il vero e proprio Piano Mattei sarà adottato tramite un Dpcm, su cui servirà prima il parere delle Commissioni parlamentari, ma non ci sono notizie sui tempi della sua pubblicazione. Il decreto sulla Governance prevede espressamente che vi sia una “valorizzazione” e uno “sviluppo del partenariato energetico anche nell’ambito delle fonti rinnovabili”.

Palazzo Chigi ha anche parlato di “interventi che verranno portati avanti per rafforzare l’efficienza energetica e l’impiego di energie rinnovabili con azioni volte ad accelerare la transizione dei sistemi elettrici, in particolare per la generazione elettrica da rinnovabili e le infrastrutture di trasmissione e distribuzione”.

Un impegno, fa sapere il Governo, “che ricomprenderà anche lo sviluppo in loco di tecnologie applicate all’energia attraverso l’istituzione di centri di innovazione, dove le aziende italiane potranno selezionare start-up locali e sostenere così l’occupazione e la valorizzazione del capitale umano”.

La premier nel suo discorso ha parlato di un progetto in Kenya “dedicato allo sviluppo della filiera dei biocarburanti, che punta a coinvolgere fino a circa 400mila agricoltori entro il 2027”.

Ha citato l’interconnessione elettrica ELMED tra Italia e Tunisia e il nuovo Corridoio H2 Sud per il trasporto dell’idrogeno dal Nord Africa all’Europa centrale attraverso il nostro Paese. Un altro passaggio ha riguardato il Marocco, dove si punta a realizzare “un grande centro di eccellenza per la formazione professionale sul tema delle energie rinnovabili”.

Sono però i progetti di cui Meloni non ha parlato a preoccupare maggiormente.

Action Aid le ha inviato una lettera aperta nella quale fa notare il coinvolgimento attivo di Sace nel Piano, l’agenzia di credito alle esportazioni grazie alla quale l’Italia è diventata il principale finanziatore pubblico di combustibili fossili in Europa e il sesto a livello globale, visto che “quasi la metà dell’importo delle garanzie emesse riguarda progetti di combustibili fossili in Africa”.

L’organizzazione ha chiesto che la crisi energetica non si trasformi in una “porta d’accesso per promuovere nuove estrazioni e infrastrutture di esportazione di petrolio e gas pericolose e poco lungimiranti”.

Anche perché, come fa notare il think tank italiano ECCO Climate in un recente report, “Opportunità e rischi del Piano Mattei”, a oggi gli investimenti infrastrutturali già in esercizio o in programmazione (come i rigassificatori di Piombino e Ravenna, la dorsale adriatica e il potenziamento del gasdotto TAP fino a 15 mld mc/anno) sono già sufficienti a garantire la sicurezza energetica nazionale.

“Investimenti nel settore oil&gas in Africa non fanno bene né a noi né a loro”, ha fatto notare Lorena Stella Martini, Senior Analyst della politica estera di ECCO, parlando con QualEnergia.it. Questo perché da un lato “già oggi grazie alle politiche di risparmio energetico l’Italia può già essere un hub del gas, esportando in Nord Europa quello che non consuma”, mentre dall’altro “questo tipo di operazioni non porta allo sviluppo economico sperato”.

Ne è un esempio lampante quanto avvenuto in Mozambico, dove – sottolinea Martini – la scoperta di giacimenti di gas non ha contribuito a “costituire spina dorsale dell’economia mozambicana, ma ha esacerbato instabilità politica e sociale“, oltre a far peggiorare gli indicatori macroeconomici.

Considerando le tendenze al ribasso messe in luce dagli scenari a medio-lungo termine sulla domanda e sui prezzi del gas a livello italiano ed europeo, emerge come investire ed emettere garanzie per nuovi progetti di sfruttamento di gas rappresenti un grande rischio economico e finanziario, oltre che climatico.

La richiesta di gas in Europa crollerà nei prossimi anni, secondo l’International Energy Agency (nel 2023 oltre -10% in Italia sul 2022). E nel 2025 le rinnovabili saranno la prima fonte di elettricità al mondo. Motivo per cui la costruzione di nuove infrastrutture legate ai combustibili fossili (come i gasdotti) rischiano di trasformarsi in “stranded asset”, ossia beni che cadrebbero presto in disuso con conseguenti danni finanziari.

Sul Piano molte critiche, oltre che le opposizioni parlamentari, provengono anche dalle associazioni ambientaliste.

Secondo Greenpeace, Kyoto Club, Legambiente e Wwf si tratta di una visione miope sul futuro energetico del Paese e sul concetto di transizione ecologica.

“Il suo unico obiettivo – scrivono in una nota – pare essere quello di trasformare l’Italia in un hub energetico del gas attraverso una cooperazione che passa dall’Africa e dalle fonti inquinanti, aumentando la dipendenza energetica del Paese. Una scelta insensata e anacronistica che sa di neocolonialismo”.

Per le organizzazioni il Piano rischia seriamente di compromettere gli impegni esistenti sul clima e quelli presi nelle due ultime COP. A Dubai si era anche sancito l’impegno ad una “transition away from fossil fuels”, la fuoriuscita da gas, petrolio e carbone, e dunque l’Italia dovrà dire in che modo intende procedere in tal senso.

Con queste scarne risorse di un Piano che sa pure di fossile?

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